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Verso orizzonti senza confine: INTERVISTA A GRAZIANO CIACCHINI

 

In questa intervista cercheremo di conoscere meglio l’artista Graziano Ciacchini.

Le sue attività spaziano in vari ambiti espressivi anche se negli ultimi anni si è dedicato soprattutto alla pittura. Uno stile personalissimo contraddistingue il suo lavoro accompagnando l’osservatore in un viaggio esplorativo attraverso dimensioni oniriche e surreali.

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L’artista, toscano, si è fatto conoscere ed ha ottenuto visibilità e consenso anche nel panorama internazionale.

Le tele si aprono su spazi infiniti: un invito a lasciare la certezza di orizzonti conosciuti per viaggiare tra colori e forme dove la meraviglia della scoperta si cela dietro a ogni pennellata. Spazi di serena contemplazione dove il silenzio e la calma predispongono a ritrovare se stessi.

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La rarefatta atmosfera che caratterizza le opere di questo artista è in grado sia di infondere calma, serenità e pace ma anche di stimolare contemporaneamente l’osservatore a aprirsi su mondi nuovi dove la strada è appena accennata e tutto è ancora da scoprire.

Narrazioni fiabesche che nascondono la possibilità di molte varianti comprensibili sono dal nostro livello più profondo, oltre la coscienza, oltre l’io, oltre la cultura, da quel linguaggio comune che accomuna tutti gli uomini del mondo, universale, archetipico, fatto di simboli antichi e ancestrali.

Una bellezza che prende forma solo nel dinamismo dell’esplorazione, della sperimentazione e dell’ascolto  e mai in una staticità formale data una volta per tutte.

La ricerca artistica rende reale ciò che poteva sembrare irreale perchè ne varca il confine. Le narrazioni sono condotte con uno stile formale preciso, con sapiente uso del colore e della tecnica espressiva.

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Il lavoro di questo artista si connota  di una forte dimensione emozionale che conduce l’osservatore a riappropriarsi di un sentire sempre più minacciato da una quotidianità rumorosa e inconsapevole.

Scelte cromatiche che identificano uno stile originale dove l’osservatore è invitato a perdersi per poi ritrovarsi come al ritorno di un lungo cammino, mai uguale a come era partito.

L’artista fa parte dell’Associazione  Secondo Piano a Sinistra

https://it-it.facebook.com/secondopianoasinistra/.

Con altri artisti ha partecipato alla realizzazione di opere su due numeri della rivista Seconda Cronaca http://www.secondacronaca.it/tutti-i-numeri/http://www.melobox.it/la-citta-delle-storie-nascoste-pisa/

Per seguire  Ciacchini nelle sue svariate e interessanti attività o per contattarlo :

https://it-it.facebook.com/ciacco65/

grazianociacchini@gmail.com

 

Graziano Ciacchini
Graziano Ciacchini – foto di Ivo Almiramaro

 

 

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Quali artisti ti hanno ispirato di più durante la tua formazione?

Il mio percorso di avvicinamento all’arte ed in special modo alla pittura, è stato un raccogliere, dapprima quasi casuale e poi sempre più cosciente, di emozioni attraverso le immagini. Sono stato e sono visitatore di musei, di mostre e lettore di pubblicazioni  artistiche, in un crescendo di consapevolezza verso il bello che quel mondo che andavo esplorando sapeva trasmettere. Un percorso di conoscenza personale, se vogliamo, che è successivamente sfociato nel dipingere.

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Sono sempre stato attratto da quella pittura che attraverso l’immagine, volesse dire qualcosa, piuttosto che rappresentare qualcosa ed è probabilmente per questo motivo che la pittura ed i pittori che hanno lasciato un segno nella mia sfera emozionale, appartengano a scuole, correnti, fama ed epoche diverse. Quando penso ai singoli artisti, però, l’attenzione si concentra prevalentemente sul secolo scorso.

Il primo a venirmi in mente è sicuramente Edward Hopper che rappresenta il pensiero presente, l’intimità di uno stato d’animo, in delicati fermo immagine mentali, elementi  manifestati invece con una espressività ed una drammaticità laceranti da Lorenzo Viani, pittore del mondo degli ultimi. Amo anche Sironi, con le sue periferie silenziose e struggenti, De Chirico e le sue architetture, quinte di pensiero, e poi i volti e le atmosfere di George Tooker, i paesaggi di Carlo Carrà, fino ai Pittori del 900 Toscano, da Ottone Rosai a Baccio Maria Bacci (la solitudine hopperiana di “pomeriggio a Fiesole”) da Guido Ferroni a Ram.

Penso che sia stato il mio, un processo non esattamente consapevole, di interiorizzazione ed elaborazione dell’opera di questi ed altri pittori, processo che nel tempo, mi ha prima spinto verso il dipingere e poi mi ha consentito di far emergere il modo di comunicare che ancora oggi caratterizza i miei lavori.

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Nel tuo percorso hai attraversato diverse forme espressive, arrivando alla pittura attraverso la poesia. C’è una continuità in questo passaggio?

Secondo me la continuità è rappresentata dall’istanza di comunicare i temi che a me sono più cari, quelli legati, pur nei limiti personali, alla esplorazione del proprio essere, fino a sbattere nei propri confini, pur sapendo che oltre quei confini, esiste sicuramente un altrove da sperimentare e da viaggiare. Ecco che i versi od i colori, diventano semplicemente espressioni diverse della stesso stato d’animo. Negli ultimi anni la pittura ha comunque preso il sopravvento. Non so bene quale sia la ragione. Forse le parole, pur nella loro vastità di significato, circoscrivono, più delle immagini il concetto e lasciano meno libertà al lettore, rispetto a quella di chi, guardando una immagine, ha la facoltà di scegliere da solo le parole più adatte.

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Nelle tue opere gli edifici sono in primo piano e le figure umane sono un dettaglio secondario che appare come insignificante. Puoi dirci qualcosa di più in merito?

L’architettura è una mia passione da tantissimi anni. Amo le architetture rappresentate in pittura, specialmente quando riescono ad evocare qualcosa che vada al di là di una mera articolazione dello spazio, quinta di scene nelle quali i protagonisti siano gli uomini. Nel mio caso le architetture rappresentano qualcosa di vivo e pensante, che osserva, ed è osservato, dalle figure antropomorfe in veste blu e nera. Anche queste ultime potrebbero essere architetture di un concetto, anzi lo sono. Per me rappresentano il pensiero che ha pensato l’immagine, dentro l’immagine stessa, come una gita premio, come un abbonato in prima fila, ed invitano ed accompagnano l’osservatore nell’avventura della scoperta. Ho la pretesa di pensare che i miei lavori siano una piccola finestra aperta verso l’esplorazione del pensiero. Non so se ci riesco, ma è quello il mio intento.

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Che rapporto hai con la scelta dei colori?

Un rapporto assolutamente libero, nel bene e nel male. Sono un autodidatta e non ho preparazione specifica sulla teoria dei colori.

Come per la musica si dice andare ad orecchio, io nel dipingere, vado “ad occhio” e sperimento ogni volta, in ogni tela. E’ evidente che l’azzurro la fa da padrone, nei miei lavori e forse il perché è legato semplicemente alla sensazione di serenità, equilibrio ed infinito, alla possibilità dell’oltre che quel colore, più degli altri, mi trasmette.

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Da bambino eri già interessato al disegno?

L’approccio alle materie scolastiche, specialmente nel caso dei bambini, rappresenta una delle prime occasioni per ampliare i confini del proprio essere. La conoscenza, la sperimentazione.

Parlo della scuola perché è in quel luogo che vanno i primi ricordi dell’approccio con il disegno. Conservo ancora uno splendido album con tutti i disegni fatti all’asilo all’età di cinque anni. Ricordo che il disegno mi piaceva molto perché pur, a volte, nell’ambito di un tema, le insegnanti lasciavano molto spazio alla libertà e quindi alla ricerca, alla sperimentazione più o meno consapevole. Ci facevano poi usare un sacco di materiali, dalle matite agli acquarelli ai pastelli alla cartapesta fino al riso, per creare basi ruvide, insegnandoci il collage piuttosto che la tridimensionalità del pongo e la contaminazione di materiali e tecniche. Dalle scuole elementari quella libertà è stata bruscamente ridimensionata. O sapevi disegnare che significava riprodurre più fedelmente possibile qualcosa, oppure non era cosa  per te e dovevi lasciar perdere. La parte espressiva o creativa, non esisteva più.  Di fatto ho lasciato perdere per circa trenta anni convinto che fosse degno solo chi sapeva riprodurre fedelmente un paesaggio o un volto e quando ho cominciato a sentire forte la voglia di mettere i miei pensieri su tela, mi sentivo come un clandestino in un mondo d’altri e mi trovavo a censurarmi da solo.

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Come dovrebbe essere secondo te, l’educazione all’arte, a scuola?

In parte ho già risposto in precedenza. In sintesi credo che la scuola dovrebbe lasciare alla libertà di espressione il maggiore spazio possibile, affiancando poi,  con intelligenza, all’esperienza di se, accorgimenti e regole. Il risultato, secondo me, farebbe si che ognuno dei due processi di apprendimento non mortificasse l’altro ma che insieme permettessero di esplorare l’intera possibilità espressiva di ogni individuo.

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In quali attività artistiche sei impegnato al momento?

In genere i primi mesi dell’anno sono quelli del rinnovamento ed in questo periodo sto elaborando nuove idee per i prossimi lavori e cercando luoghi possibili, per realizzare esposizioni personali.

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Hai avuto modo di lavorare e essere riconosciuto anche fuori dai confini nazionali?

Ho esposto a Parigi in due diverse occasioni. In una esposizione collettiva di artisti italiani nel 2017 e in una fiera d’arte, shopping art Paris, nel 2016. Al momento ho alcuni contatti attraverso i quali spero di poter esporre in altri paesi europei. E’ vero anche che oggi per  farsi conoscere oltre i  confini del proprio paese, il web da grandi possibilità e mi ha permesso di avere visibilità e apprezzamenti da diverse parti del mondo.

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Quali sono i tuoi progetti artistici per il futuro?

Lavorare! Ho voglia di proseguire ed ampliare il mio viaggio di scoperta per poi manifestarlo attraverso l’ideazione e la realizzazione di nuovi lavori.

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Chiara Gasperini

Intervista: STEFANO TOMMASI “El universo se crea en el ojo del que mira”

Stefano Tommasi è un fotografo che vive a pieno la fotografia come arte narrativa e interpretativa al tempo stesso.

Nel suo lavoro prendono forma sogni e visioni o forse una realtà nuova, dove a essere portata alla luce è la poesia.

Così le immagini, a volte sfiorate dalle parole, incantano lo spettatore. Perdersi a guardare le sue fotografie è un’esperienza intensa, interiore e sensoriale insieme. Il processo creativo costruisce il concetto che prende forma nello scatto.

“There are Things Here Not Seen in This Photograph”: scrisse Duane Michals sopra ad una sua nota fotografia e queste parole potrebbero essere scritte anche sulle foto di Stefano Tommasi.

La fotografia non è più, in questo caso, il frutto di un’istante rubato ma rappresenta il risultato di un progetto che affonda le sue radici nella storia stessa dell’artista e nella sua visione del mondo.

Nelle opere di Stefano Tommasi gli sfondi, anche quando sono spazi chiusi, sembrano aprirsi diventando prospettive da percorrere, inviti a uscirne per ritrovarsi in uno spazio che non è più racchiuso ma aperto, come il messaggio offerto. Persone, cose o elementi naturali sono tutti caratterizzati da uguale forza narrativa e intensità espressiva in quanto svelati nella loro dimensione surreale.

Stefano Tommasi ha una formazione originale e poco convenzionale dettata dal talento e dalla passione che lo ha portato a ricevere premi in Italia e all’estero e a occuparsi di varie forme d’arte come la danza e il teatro. Oltre ai prestigiosi riconoscimenti ricevuti, l’artista è impegnato in mostre e esposizioni in Italia e all’estero.

https://stefanotommasi.com/

C: quello che fai inquadra letteralmente la realtà da un punto di vista poetico. Sei sempre stato in grado di farlo, fin da bambino?

S: la mia, è stata un’infanzia che definirei intima e libera: non ho frequentato l’asilo, non mi piaceva stare assieme ad altri bambini. Non amavo la condivisione, nemmeno dopo, alle scuole elementari.

Giocavo da solo e sognavo, in giro per il mio piccolo borgo e nei boschi rassicuranti e pieni di magia.

I miei mi lasciavano fare. Ero felice e quieto. Crescendo, la poesia si è un po’ assopita per molti anni, fin quando è, inaspettatamente, riapparsa; come un sogno che torna alla mente.

E tutt’ora mi accompagna.

Io e Me
Io e Me

C: ricordi il tuo primo incontro con una macchina fotografica?

S: mio padre ha sempre avuto un’indole artistica: è stato per molti anni musicista e parallelamente ha coltivato la passione per la fotografia.

I nostri anni (miei e di mia sorella, di 2 anni più grande), sono stati dolcemente raccontati dalla macchina fotografica di papà. Ho sempre visto e toccato macchine fotografiche da che mi ricordi. Nonostante ciò, non avevo ancora passione per la fotografia e quindi, per rispondere correttamente alla tua domanda, ti dico che il primo incontro con la macchina fotografica l’ho avuto con me stesso, quando ho capito di averne bisogno per esprimermi senza dover parlare.

Rational dream Stefano Tommasi
Rational dream Stefano Tommasi

C: offrire corsi di fotografia agli studenti già a scuola potrebbe essere un modo di arricchire la formazione?

S: non  saprei. Personalmente, ritengo piuttosto inutili i corsi fotografici. Sia a scuola che in genere.

So di essere impopolare nel dire questo. Io stesso ne tenevo nel recente passato, probabilmente senza nemmeno averne la piena consapevolezza. Credo che la fotografia contemporanea non abbia molto da insegnare. Parlo a livello tecnico. I migliori fotografi che conosco, non sanno molto di fotografia. Non sono traviati, usano il mezzo per esprimere le proprie emozioni, la propria visione del mondo esteriore e, talvolta, interiore. Offrirei corsi di educazione al bello.

Autoritratto d'inverno
Autoritratto d’inverno

C: le tue foto raccontano storie che non si esauriscono nel momento che la foto ritrae, invitano a immaginare un prima e un dopo. Ricerchi sempre questa dimensione? 

S: la mia fotografia ha un approccio fondamentalmente emotivo/istintivo.

Sono spesso immagini “sospese”, in bilico tra prima e poi.

So che può sembrare un concetto piuttosto mistico, ma è così che nascono le idee: mi bussano alla porta ed io non devo far altro che farle entrare, e ritrarle. Amo quando accade che, anche solo ad una singola persona, una mia fotografia ha stimolato una curiosità, un’ emozione, un ricordo. Qualcosa che è anche un po’ suo.

La neve e le stelle
La neve e le stelle

C: una foto è una lettura della realtà: non è un fatto ma un’interpretazione. Cosa ne pensi?

S: penso che tutto sia interpretativo, la vita stessa lo è.

Senza titolo
Senza titolo

C: Lucca e la Garfagnana sono per te fonte d’ispirazione?

S: la Garfagnana senz’altro.Ho bisogno di solitudine per creare i miei lavori. Scenari onirici naturali. In questo, la Garfagnana è un paradiso. Non ho mai vissuto molto a lungo in luoghi opposti. Forse troverei altre ispirazioni, forse no.

C: come definisci la fotografia concettuale?

S: concettualmente indefinibile.

I sogni della mente
I sogni della mente

C: esiste un fotografo al quale ti ispiri di più?

S: esiste un fotografo meraviglioso che ho conosciuto soltanto 2 anni fa, ed è Duane Michals. Una cara amica mi disse che le mie fotografie le ricordavano quel fotografo, così l’ho cercato: sono rimasto a bocca aperta dalla forza emotiva delle sue opere ed anche alla vicinanza con il mio sentire. Posso dire che io sia stato ispirato da Duane Michals prima ancora di conoscerlo.

C: come è nata l’idea dei tuoi autoritratti?

S: dalla necessità e desiderio di esprimere la mia visione del mondo, sia onirico che reale. Che poi, è la stessa cosa.

 

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PolaroidportraitSmall

C: foto e parole sono spesso insieme nei tuoi lavori: esigenza o gioco creativo?

S: talvolta, le immagini non sono sufficienti per esprimere un concetto. Hanno bisogno di una “spinta”, di una colonna sonora sussurrata. Direi che sia un’ esigenza ma anche desiderio di sperimentare. A volte le immagini parlano da sole, a volte le parole creano fotografie, altre volte si incontrano, al centro.

ZERVOS-PICASSO: quando un uomo ama una donna

In questa conversazione con il critico d’arte Christian Zervos (Argostoli 1889Parigi 1970), Picasso parla d’arte.

Zervos, collezionista ed editore d’arte francese di origine greca, ha dedicato ampia parte della sua vita alla stesura di un catalogo ragionato sull’opera di Picasso che tratta di gran parte delle sue opere note.

Per ragioni di spazio non è stata riportata la conversazione integrale ma una sua significativa parte.

Picasso drawing with Paloma and Claude at Villa la Galloise, 1953. By Edward Quinn/© EdwardQuinn.com.
Picasso drawing with Paloma and Claude at Villa la Galloise, 1953.
By Edward Quinn/© EdwardQuinn.com.

Picasso: “possiamo cercare di adattare all’artista la battuta di quell’uomo che diceva che non c’è nulla di più pericoloso degli strumenti di guerra in mano ai generali. Allo stesso modo nulla è forse più pericoloso della giustizia in mano ai giudici e dei pennelli in mano ai pittori!

Immaginate il pericolo per una società! Ma oggi non abbiamo lo spirito per bandire i poeti e i pittori, perché non abbiamo più idea del danno di tenerli in città. Per mia disgrazia e forse per mio diletto organizzo le cose secondo le mie passioni. Che cosa triste per un pittore che ama le bionde negarsi il piacere di metterle nel quadro perché non vanno bene con il cesto della frutta!

Che miseria per un pittore che detesta le mele doverle usare continuamente perché armonizzano con la tovaglia!

Io metto nei miei quadri tutte le cose che amo.

Tanto peggio per le cose, devono andare d’accordo le une con le altre.

Prima di ora i quadri arrivavano a essere completi progressivamente. Ogni giorno portava qualcosa di nuovo. Un quadro era una somma di addizioni.

Con me un quadro è una somma di distruzioni. Io faccio un quadro e poi proseguo per distruggerlo.

Ma alla fine nulla è perduto: il rosso che ho tolto da una parte appare in un altra.  Penso che sarebbe molto interessante registrare fotograficamente non le varie fasi di un dipinto ma le sue metamorfosi. Si potrebbe vedere forse per quale via una mente trova la sua strada fino alla cristallizzazione del suo sogno.

Ma ciò che è realmente molto curioso è vedere che il quadro non cambia in modo basilare, ma che la visione iniziale rimane quasi intatta a dispetto delle apparenze.

(…)

Il quadro non è pensato e deciso in precedenza, piuttosto segue la mobilità del pensiero mentre viene eseguito.

Una volta finito, cambia ancora secondo lo stato d’animo di chi lo sta guardando. Un quadro vive la sua vita come una creatura viva, subendo i cambiamenti che la vita impone giorno per giorno. Ciò è naturale perché un quadro vive solo attraverso chi lo guarda.

Quando sto lavorando a un quadro, penso al bianco e uso il bianco. Ma non posso continuare a lavorare, pensare e usare il bianco: i colori, come i lineamenti, seguono i mutamenti dell’emozione.

(…)

Voglio sviluppare l’abilità di fare un quadro in modo che nessuno possa vedere come è stato fatto.

A quale scopo?

Quello che voglio è che un quadro susciti solo emozione.

(…)

Quando si fa un quadro spesso si scoprono cose belle.

Si dovrebbe badare a queste cose, distruggere il proprio quadro, ricrearlo molte volte. A dire la verità quando si distrugge qualcosa di bello, l’artista non lo sopprime, piuttosto lo trasforma, lo condensa, lo rende più sostanziale.

Il prodotto è il risultato delle scoperte rifiutate.

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Altrimenti si diventa l’ammiratore di se stessi. Non vendo nulla a me stesso.  In realtà si lavora con pochi colori. Quel che dà l’illusione che siano molti è che sono stati messi al posto giusto. L’arte astratta è solo la pittura: e il dramma? Non vi è arte astratta.

Bisogna sempre cominciare con qualcosa. Bisogna allora togliere ogni apparenza di realtà, non si corrono rischi perché l’idea dell’oggetto ha lasciato un impronta indelebile. È la cosa che ha risvegliato l’artista, ha stimolato le sue idee, eccitato le sue emozioni. Idee e emozioni saranno alla fine prigioniere del suo lavoro; qualunque cosa facciano, non potranno fuggire dal quadro: ne saranno parte integrale, anche quando la loro presenza non è più riconoscibile.

Gli piaccia o no, l’uomo è lo strumento della natura: essa impone su di lui il suo carattere, la sua sembianza.

(…)

Non ci si può opporre alla natura. È più forte del più forte degli uomini! Noi tutti abbiamo ogni interesse di essere in buoni rapporti con essa. Possiamo permetterci una certa libertà ma solo nei dettagli.

Inoltre non vi è un’arte figurativa e una non figurativa.

Ogni cosa ci appare sotto forma di figure. Anche le idee metafisiche sono espresse con figure, perciò potete capire quanto assurdo sarebbe pensare alla pittura senza immagini di figure.

Una persona, un oggetto, un circolo sono figure; agiscono su di noi più o meno intensamente.

Alcune volte sono più vicine alle nostre sensazioni, producono emozioni che riguardano le nostre facoltà affettive; altre riguardano più particolarmente l’intelletto. Devono essere accettate tutte perché il mio spirito ha bisogno di emozioni quanto i miei sensi. Pensate che mi interessi che questo quadro rappresenti due persone? Queste due persone esistevano una volta, ma ora non esistono più. La loro visione mi dava un’emozione iniziale, a poco a poco la loro presenza reale fu oscurata, esse divennero per me una finzione, poi scomparvero, o piuttosto si trasformarono in problemi d’ogni sorta. Per me non sono più due persone, ma forme e colori, capite?

Forme e colori che però racchiudono l’idea delle due persone e conservano la vibrazione della loro vita.

Io mi comporto con la mia pittura come mi comporto con le cose.

Dipingo una finestra proprio come guardo attraverso una finestra. Se questa finestra quando è aperta non appare bella nel mio quadro, tiro una tenda e la nascondo come avrei fatto nella mia stanza.

Bisogna agire in pittura come nella vita, direttamente.

 

In realtà la pittura ha le sue convenzioni, delle quali è necessario tener conto, poiché non si può fare altrimenti.

Per questa ragione bisogna aver sempre davanti agli occhi il vero aspetto della vita. L’artista è un vero ricettacolo di emozioni venute da non importa dove: dal cielo, dalla terra, da un pezzo di carta, da una figura che passa, da una ragnatela. Ecco perché non bisogna fare discriminazioni tra le cose. Tra esse non vi è rango. Bisogna prendere la propria parte di buono dove si trova, eccetto che nei propri lavori. Ho l’orrore di copiare me stesso, ma non ho esitazioni, quando mi è mostrata una cartella di vecchi disegni, a prendere da essa tutto quello che voglio.

Quando inventammo il cubismo, non avevamo intenzione di inventare il cubismo ma semplicemente di esprimere ciò che era in noi.  Nessuno tracciava un programma di azione, e sebbene i nostri amici poeti seguissero attentamente i nostri sforzi, essi non si imposero mai a noi. I giovani pittori d’oggi spesso si preparano a un programma da seguire e sul quale fare affidamento come bravi scolaretti. 

Il pittore passa da stati di pienezza ad altri di vuoto. 

Questo è tutto il segreto dell’arte. Faccio un viaggio nel bosco di Fontainebleau: là faccio indigestione di verde. Devo mettere questa sensazione in un quadro.

Il verde vi domina.

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Il pittore dipinge come se avesse un urgente bisogno di scaricarsi delle sue sensazioni e delle sue visioni.

Gli uomini se ne impossessano come di un mezzo per coprire un poco la loro nudità. Prendono quello che possono e come possono.

Io credo che alla fine non prendano nulla; molto semplicemente si tagliano un cappotto sulla misura della loro stessa incomprensione.

Essi creano a loro immagine ogni cosa: dal Creatore al quadro.

Ecco perché il fissare confini precisi è distruttore per la pittura.

Il quadro ha sempre una certa importanza, almeno quella dell’uomo che lo ha fatto.

Il giorno in cui è comprato e appeso alla parete acquista un’importanza d’altro genere ed è per questo che il quadro è fatto. L’insegnamento accademico della bellezza è falso.

Noi siamo ingannati, ma così bene ingannati che è impossibile recuperare perfino l’ombra della verità. Le bellezze del Partenone, il Vesuvio, le Ninfe, i Narcisi sono altrettante bugie. L’arte non è un’applicazione del canone di bellezza, ma ciò che l’istinto e la bellezza possono concepire indipendentemente dal canone. Quando un uomo ama una donna, non prende gli strumenti e la misura, l’ama con desiderio, per quanto sia stata fatta ogni cosa per mettere il canone perfino all’amore.

A dire il vero il Partenone non è altro che una fattoria con il tetto: colonne e sculture furono aggiunte perché c’era gente ad Atene che lavorava e voleva esprimersi.

Non è ciò che l’artista fa che conta ma ciò che egli è.

Cézanne non mi avrebbe mai interessato se avesse vissuto e dipinto come Jacques-Emile Blanche, anche se la mela che dipinse fosse stata dieci volte più bella Ciò che ci interessa è la non facilità di Cézanne, il vero insegnamento di Cézanne, i tormenti di Van Gogh, cioè il dramma dell’uomo. 

Il resto è falso.

Ognuno vuol capire la pittura. Perché non vi è alcun tentativo di capire il canto degli uccelli?

Perché si ama una notte, un fiore, tutto ciò che circonda un uomo senza cercare di capirlo tutto? Mentre per la pittura si vuole capire. Fate che si capisca che l’artista lavora per necessità, che è egli pure un elemento minimo del mondo, al quale non si dovrebbe dare maggiore importanza di quanta se ne dà alle molte cose naturali che ci affascinano ma che non ci spieghiamo.

Coloro che cercano di spiegare un quadro sono quasi sempre sulla strada sbagliata.

Gertrude Stein qualche tempo fa mi annunciò gioiosamente che aveva finalmente capito che cosa rappresentava un mio quadro: tre musicisti. Era una natura morta!

Come potrebbe un mio spettatore vivere un mio quadro come lo vissi io?

Un quadro viene a me da molto lontano, chissà quanto lontano, io lo sentii, lo vidi, lo feci e tuttavia, il giorno dopo, io stesso non vedo quello che ho fatto.

Come può una persona penetrare i miei sogni, i miei desideri, i miei istinti, i miei pensieri, che hanno impiegato tanto tempo per elaborarsi e portarsi alla luce; soprattutto come può cogliere in essi quel che io ne ho fatto, magari contro la mia volontà. 

Eccetto alcuni autori che stanno aprendo nuovi orizzonti alla pittura, i giovani d’oggi non sanno più dove andare. Invece di prendere le nostre ricerche per reagire contro di noi, si dedicano a rianimare il passato. Tuttavia il mondo è aperto davanti a noi, ogni cosa è ancora da farsi e non da rifarsi.

(…)

Non sono un pessimista, non disdegno l’arte, poiché non posso vivere senza dedicare a essa tutte le mie ore. L’amo come l’intero fine della mia vita.

Tutto quello che faccio in relazione alla mia arte mi dà una gioia tremenda.

(…)

Abbiamo imposto sui quadri dei musei tutte le nostre stupidità, i nostri errori, le pretese del nostro spirito. Di essi abbiamo fatto povere, ridicole cose.  Ci aggrappiamo ai miti invece di intuire la vita intima degli uomini che li hanno dipinti.

(…)

Si dovrebbe fare una rivoluzione soprattutto contro il buon senso. Il vero dittatore sarà sempre conquistato dalla dittatura del buon senso. …Forse no”.

fonte: C. Zervos, Conversation with Picasso, in Adriano Pagnin, Stefania Vergine, Il pensiero creativo, La Nuova Italia, Firenze, 1974, pag. 133-140.

Intervista: FEDERICO BIANCALANI “Des ailes couvrent les feuilles”

Una sera di Aprile, quando ancora non era primavera ma di certo l’inverno era finito, sono andata a teatro per la messa in scena di un’opera minore di Čechov.

In quella occasione ho visto in scena una delle ultime creazioni di Federico Biancalani.

Mi ha incuriosito non poco.

Quel ”viaggio” in Russia aveva lasciato intravedere paesaggi che volevo visitare subito, scendendo dal treno e andando a piedi, con tutta la voglia di dare spazio alla meraviglia.

Felicemente persa, eccomi a raccontare.

Scenografia, illustrazione, formazione, scultura, pittura, grafica, sono gli ambiti in cui il lavoro di Biancalani si concretizza.

Una solida formazione e numerose, notevoli esperienze, spesso riconosciute da premi e menzioni di merito, lo caratterizzano. Un lavoro che si configura come ricerca espressiva costante, in dialogo aperto con il momento presente e le sue dimensioni più recondite.

La natura spesso è messa in scena e celebrata con una semplicità minimalista che ne esalta la straordinarietà.

Creazioni che rimandano a una dimensione dell’essere che si colloca tra ragione e inconscio, sonno e veglia, dinamica e stasi.

Ti trovi davanti a una sua illustrazione e pensi al surrealismo.

Ma poi dimentichi questa parola. Del resto non è che una definizione, mentre, per rifarmi alle parole di qualcun altro, l’arte dà forma agli enigmi e lascia perdere le soluzioni.

Per conoscere meglio Federico Biancalani, oltre a leggere questa intervista, si può navigare verso il suo sito, l’esperienza diretta saprà dire certo più delle mie parole.

http://www.federicobiancalani.com/

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Opera di Federico Biancalani, Titolo: Babbo, tecnica: acquerello su carta, 25×35 cm, 1978

Federico, da bambino,  sapeva già che lavoro voleva fare da grande?

‘Federico da grande’ sa che ‘Federico da bambino’ è ormai perso e non vuol fare come certe vedove che mettono in bocca al marito defunto affermazioni che il marito non si sarebbe mai sognato. ‘Federico da grande’ stenta a trovare un collocamento esatto nel mondo e pensa che probabilmente anche ‘Federico da bambino’ non avesse idee più chiare. Quando ‘Federico da grande’ guarda ‘Federico da bambino’ nella immagine del profilo della sua pagina Facebook – alla guida di una macchinina di plastica gialla, con casco ed occhiali da velocità – gli pare di riscontrare una sfumatura interrogativa negli occhi, come dicesse “Si ma ora ‘ndo vado? Piove pure!”

federico.jpeg: Opera di Antonio Biancalani, Titolo: Federico, tecnica: olio su tavola, 120x150 cm, 1979
Opera di Antonio Biancalani, Titolo: Federico, tecnica: olio su tavola, 120×150 cm, 1979

Ci sono stati incontri importanti, in grado di influenzare positivamente il tuo percorso artistico?

 Mio padre è un pittore e pertanto pennelli, colori e odori di olio di lino hanno influenzato il mio orizzonte sensoriale sin da bambino. Lo studio di mio padre era una stanza al primo piano. Il pavimento in cotto, poggiato su travi e travicelli di legno, era elastico. Camminandoci oscillava come un delicato terremoto sussultorio. Appoggiato su una sedia e con le ginocchia per terra disegnavo divertito da quella oscillazione. Tutto ciò credo sia una influenza talmente radicale da non sapere come descriverla se non sottoforma di ricordi sensoriali. Al liceo artistico gli impiantiti erano piuttosto stabili, ma per fortuna c’era Rosetta Di Ruggiero – insegnate di plastica, bravissima restauratrice e persona dalla vitalità sismatica. L’irruenza sismatica di Rosetta era ben più scioccante del pavimento di mio padre, aveva il pregio di allargare gli orizzonti e di sgretolare quelle costruzioni effimire e seriose – tanto care al giovane artista – incoraggiandoti a costruzioni ariose da porre al cimento dell’ironia e della sperimentazione. Recentemente ho fatto l’allegra conoscenza di Michele Sinisi, valoroso regista e attore. Per quanto diversi per temperamento ci troviamo a spartire la stessa passione per la vivacità dei terremoti, per il piacere di perturbare le convenzioni ed appendere alla porta del teatro il cartello:

‘Work-in-progress’

‘Vietato l’accesso agli addetti ai lavori’

 Osservando le tue creazioni emerge una costante, incontenibile ricerca di nuove forme espressive: cosa riesce a orientarti ?

 In verità mi trovo spesso disorientato, e in verità ho un pessimo senso dell’orientamento anche per le strade, talmente pessimo da sfiorare la patologia. All’inizio mi si presentano molte possibilità, tante strade possibili, e quello che mi è più chiaro è ciò che non voglio. Poi comincia a precisarsi quello che voglio e comincio ad intuire  qualcosa che sottende e muove le possibilità singole, come se la struttura topografica delle strade si facesse più chiara, allora seguendo quel qualcosa riesco ad orientarmi. Credo esista una differenza tra la pensata e l’idea. La pensata è qualcosa che finisce lì, l’idea è una dinamica di più ampia che richiede sintesi e che va trovata nell’immanenza della prassi, dei materiali e degli strumenti. Finche non intuisco qualcosa che si avvicini ad un’idea continuo a pesticciare per i vicoli piuttosto nervosamente.

 È possibile rintracciare una specifica tonalità, un tema ricorrente in tutto quello che crei?

 Su un piano formale e tecnico se dovessi individuare due qualità ricorrenti direi leggerezza e trasparenza. Se ciò che ho detto riguardo all’immanenza non è solo una speculazione ma qualcosa che appartiene a quello che faccio, queste due qualità dovrebbero significare qualcosa anche ad un livello più ampio, ma onestamente non so cosa.

- stultifera_navis.jpg: Opera di Federico Biancalani, Titolo: Stultifera Navis, Tecnica: rete in acciaio armonico e ferro, dimensioni variabili, 2013
Opera di Federico Biancalani, Titolo: Stultifera Navis, Tecnica: rete in acciaio armonico e ferro, dimensioni variabili, 2013

Il tuo recente lavoro come scenografo di “Miseria e Nobiltà”, per la regia di Michele Sinisi, ha riscontrato un grande consenso di pubblico e di critica. Vuoi parlarci di questa esperienza?

Lo spettacolo ancor prima di ricevere un grande consenso di pubblico e critica ha ricevuto il grandissimo consenso di chi ci ha lavorato. Più che ad uno spettacolo abbiamo pensato a questo progetto come ad una festa su miseria e nobiltà. A tal fine tutti – i dieci meraviglosi istrioni, il drammaturgo Francesco Asselta, gli aiuti regista, i tecnici, la produzione, i laboratorianti – tutti hanno contribuito meravigliosamente a mantenere questa fucina ad un regime di fuoco scoppiettante se non divampante. Purtroppo l’arte viene frequentata sempre più dai soli addetti ai lavori e gli ambienti artistici stanno diventando circuiti sempre più chiusi e seriosi. La festa è una dimensione che abbiamo cercato per ritrovare l’aspetto ludico del teatro, per  tentare di rompere la chiusura dei circuiti artistici e riconquistare l’originaria funzione di rito collettivo. Ricordiamoci che anticamente il teatro era solo una parte di ritualità ben più ampie come le dionisie greche, i ludi latini, le sacre rappresentazioni etc.

Abbiamo dunque cercato un respiro ampio, abbiamo attivato laboratori attoriali e scenografici, lavorando sul palco con prove costantemente aperte al pubblico; dal punto di vista della messa in scena abbiamo giocato con i momenti memorabili del testo, concentrandoci su quelle scene ormai divenute parte dell’immaginario comune. Il progetto si è alimentato di questa energia collettiva.

Finite le prove succedeva spesso di trovarsi in qualche posto e di continuare a lavorare a suon di danze e Moscov Mule. Lavoravamo circa 12 ore al giorno, la pausa pranzo era spesso breve e frugale ed a fine prove, affamatissimi, saccheggiavamo i buffet degli Happy Hour milanesi come fossimo veramente i poveri di Miseria&Nobiltà quando arrivano a casa del cuoco arricchito. Un metodo Stanislawsky riportato alla concretezza fisiologica dei succhi gastrici!

- IMG_2222.jpeg: Miseria&Nobiltà, foto di scena
Miseria&Nobiltà, foto di scena

 

Nel tuo lavoro ti occupi spesso di infanzia, ragazzi, educazione. Quali obiettivi ti prefiggi di raggiungere in questi casi?

Durante il fermento chiassoso di un laboratorio sull’argilla con un gruppo di quattro anni, un bambino viene da me e mi mostra un piccolo ovulo d’argilla dicendo “Guarda, ho fatto un sasso!”. Senza dubbio il manufatto, nella sua semplicità, coglieva il soggetto con una compiutezza formale degna del miglior Canova. Dopo dieci minuti torna da me mostrandomi lo stesso manufatto e dice “Guarda, ho fatto un pinolo!”. Ignoro se in quei dieci minuti il pargolo abbia fatto e disfatto quaranta volte l’ovuletto, o se invece non l’abbia neanche toccato, sta di fatto che sono rimasto folgorato da ciò che mi aveva mostrato. L’approccio infantile a quelle attività che noi adulti chiamiamo artistiche mi ha spesso aperto delle prospettive che sono dei veri baratri.

Nei miei laboratori probabilmente cerco uno scambio, non credo di volere e potere insegnare qualcosa. Quello che tento di fare è ciò che fa un bravo vinificatore: l’uva fermenta da sola e il vinificatore  la sorveglia, pulisce i tubi e rimuove le fecce quando è il momento. Credo che l’infanzia disponga di lieviti freschi capaci di fermentazioni estetiche sorprendenti e che tali fermentazioni vadano assecondate per quello che sono. Bisogna dimenticarsi soprattutto del nostro concetto adulto di arte, anzi il nostro concetto di arte è proprio quella feccia che va rimossa perché non ‘adulteri’ il vino. In altre parole il processo va curato senza pretendere il risultato. Ogni stagione, ogni uva darà un vino irripetibile, ma oggidì gli enologi vanno per le cantine con le mazzette colore e stabiliscono a priori come dovrà essere il vino. C’è troppa attenzione sull’infanzia, mi piace pensare potergli regalare dei momenti di disattenzione, una botte vuota in cui possa fermentare il vino dell’imprevisto.

Occhi_chiusi3.jpg: "Disegna quello che vedi a occhi chiusi", laboratorio per prima elementare, tecnica: carboncino su cartoncino nero
“Disegna quello che vedi a occhi chiusi”, laboratorio per prima elementare, tecnica: carboncino su cartoncino nero

 

Occhi_chiusi3.jpg: "Disegna quello che vedi a occhi chiusi", laboratorio per prima elementare, tecnica: carboncino su cartoncino nero
“Disegna quello che vedi a occhi chiusi”, laboratorio per prima elementare, tecnica: carboncino su cartoncino nero
Occhi_chiusi2.jpg: "Disegna quello che vedi a occhi chiusi", laboratorio per prima elementare, tecnica: carboncino su cartoncino nero
“Disegna quello che vedi a occhi chiusi”, laboratorio per prima elementare, tecnica: carboncino su cartoncino nero

Intervista: GIANMARCO CASELLI “Oltre”

Gianmarco Caselli, è un artista lucchese per nascita, cosmopolita per indole, premiato dal Rotary Club Lucca e Rotaract nel 2012 come “Grande talento Lucchese”.

Il suo impegno artistico si riversa in svariate attività: dal mondo dell’insegnamento scolastico formale, (è insegnante di lettere nella scuola secondaria superiore), a quello della ricerca e della musica:  Gianmarco Caselli è anche uno sperimentatore, studioso,  giornalista e  premiato autore di poesie e racconti.

Gianmarco Caselli, backstage di PupilleGianmarco Caselli, backstage di “Pupille”

Negli ultimi anni  si è distinto sempre più, soprattutto, come pianista e compositore.

Provando a definirla, la musica di Gianmarco Caselli si caratterizza per una raffinata fusione di elettronica e strumenti tradizionali, poiché non esaurendosi in una sperimentazione fine a se stessa, autoreferenziale, e se vogliamo, superata, cerca invece accordi e punti di contatto tra il presente e il passato, creando futuro.

Negli utlimi anni le sue composizioni hanno ottenuto riconoscimenti in concorsi internazionali e si sono distinte in prestigiosi Festival, (Carnegie Hall di New York, Centre de Cultura Contemporània de Barcelona, Berlino, Kiel, Città del Messico, California, Istituti Italiani di Cultura di Amsterdam, Copenaghen, Amburgo, Londra, Uruguay, Argentina).

Ideatore e direttore artistico del LUCCA UNDERGROUND FESTIVAL che si propone di divulgare l’arte, lontana da luoghi comuni, necessità, cliché. Il Festival, quest’anno ha indetto anche un Contest per racconti Horror che in giuria vede nientemeno che il direttore di Splatter e la giornalista Valeria Ronzani, direttrice di Words In Freedom e chiuderà il cartellone con Gary Brackett, Direttore Artistico di The Living Theatre Europa.

Gianmarco Caselli, by Elena Fiori
Gianmarco Caselli, by Elena Fiori

Per una esaustiva conoscenza della sua formazione e delle sue svariate collaborazioni e attività rimandiamo ai siti dove è possibile ottenere informazioni anche sui suoi concerti, performances e molto altro.

http://www.gianmarcocaselli.it/

http://www.associazionevaga.it

Da qui è possibile ascoltare Gianmarco Caselli, elettronica e oggetti vari 
Irene Russolillo, danza, in “Genetica I – Omaggio a Cage” di G. Caselli

https://www.youtube.com/watch?v=QGs3Zv0gbKM

Gianmarco Caselli, "Pupille", by Marco Puccinelli
Gianmarco Caselli, “Pupille”, by Marco Puccinelli

Il punto di vista di Gianmarco attraversa due mondi: quello dell’arte, come critico, fruitore consapevole e compositore e quello dell’educazione, come insegnante di scuola.

Per questo, è per noi particolarmente prezioso avere la fortunata opportunità di poter conversare con lui, soprattutto in questo periodo unico della sua vita, visto che è diventato papà da pochissimi giorni.

CHIARA: questo blog è dedicato all’infanzia che incontra l’arte. Alle storie d’amore tra bambini e arte, bambini che seguendo un certo cammino, sempre diverso, sempre inedito, una volta grandi, possono definirsi artisti. Gianmarco, vuoi raccontarci la tua storia? Che bambino sei stato e quando hai incontrato la tua “Beatrice?

GIANMARCO: nella mia famiglia non ci sono stati musicisti, ma cultura, soprattutto letteraria, sì. Il mio primo contatto con la musica quando ero piccolo è stato come quello di tanti altri bambini con una tastierina Bontempi, poi mia madre ascoltava De André. Ho cominciato ad appassionarmi agli ascolti della musica classica quando avevo circa nove anni grazie anche alla professoressa di musica che avevo alle scuole medie. Da piccolo, però, non c’erano occasioni di ascolto e avvicinamento alla musica per bambini, sotto questo punto di vista c’è più attenzione ora. Successivamente, ai tempi del liceo mi sono avvicinato ancora di più a De André, al rock e soprattutto ai Pink Floyd e al punk. Il mio percorso musicale non è stato perciò assolutamente un percorso né regolare né spettacolare.

CHIARA: c’è chi dice che un artista, nel profondo di se stesso, si esibisca, ogni volta, per una persona in particolare. Anche per te è così?

GIANMARCO: no, per un lungo periodo della mia attività la persona a cui mi rivolgevo ero me stesso in contrasto, quasi in opposizione alla moltitudine. Solo quando mi sono reso più libero dallo sforzo di affermarmi ho cominciato a rivolgermi a un’entità indefinita. Successivamente ho scritto e scrivo brani pensati per esecutori specifici o dedicati ad altre persone ma non sono mai stato autoreferenziale: intendo dire che ho sempre cercato di scrivere musica che fosse in grado di comunicare. Non mi piacciono quegli artisti estremamente concettuali che parlano solo a se stessi o a un’élite specifica di ascoltatori.

Gianmarco Caselli, Premiazione al Rotary Club
Gianmarco Caselli, Premiazione al Rotary Club Lucca

CHIARA: ogni artista potrebbe, anzi dovrebbe, fare ciò che più lo rappresenta: il grande pittore macchiaiolo Giovanni Fattori insegnò ai posteri che “arte è libertà da ogni formula nova e antica”. Oggi è più difficile?

GIANMARCO: di certo è molto difficile esserlo oggi in Italia. Noi veniamo da un periodo, quello che va dagli anni ’60 agli anni ’80, in cui molti artisti potevano essere ciò che volevano, e questo, oggi, ci fa sentire molto di più il peso di una società in cui molte realtà dedicate all’arte contemporanea sono costrette a chiudere o a vivere di volontariato mentre lo stato dovrebbe incentivarle e sostenerle. C’è stato un imbarbarimento culturale, a mio avviso pianificato, che ci ha fatto tornare indietro di almeno 60 anni. È come se certe sperimentazioni non fossero mai state fatte, e molti artisti sono costretti, per tirare a campare, a non poter esprimere se stessi. Penso con amarezza a quanti musicisti si trovano a eseguire in concerto le solite musiche di compositori certamente grandiosi e famosissimi, ma pur sempre del passato, senza possibilità di portare in tournée un programma di musica contemporanea perché verrebbe snobbato. Quando dico che siamo tornati indietro di almeno 60 anni, penso proprio a questo: una volta che ho scritto un pezzo in stile John Cage in occasione del suo anniversario, ho sentito i commenti di alcune persone di questo tipo: “Oh, anche io saprei fare musica così.”

Perché le persone hanno dimenticato Cage, Stockhausen, anzi, molti non sanno proprio chi siano. Del resto, tanti non conoscono neppure la storia del nostro paese. In compenso conoscono i nomi dei partecipanti ai talent show. La libertà, e spesso anche l’intelligenza e la cultura, come la storia ci ha insegnato, continuano spesso a essere purtroppo sinonimo di isolamento e incomprensione. Io, comunque, non la vivo così e sono contento che tante persone apprezzino la mia musica.

Gianmarco Caselli, Berlino, Tacheles
Gianmarco Caselli, Berlino, Tacheles

CHIARA: leggendo critiche e recensioni riguardanti le tue composizioni e i tuoi spettacoli, per definirti, ricorre spesso l’aggettivo, “geniale”. Tu sei anche un professore di scuola secondaria superiore: credi che ci siano stili educativi che più di altri possono far emergere il genio creativo degli studenti?

GIANMARCO: ovviamente mi fa piacere l’aggettivo “geniale” e spero di meritarmelo. Per quel che riguarda l’insegnamento, le nuove tecnologie hanno introdotto un nuovo linguaggio con relative tecniche di comunicazione e apprendimento di cui non si può non tenere conto. Ma queste non bastano. Penso sia essenziale far esprimere i ragazzi, fargli interpretare e selezionare i tanti input da cui sono bombardati, e farli lavorare possibilmente in gruppo affinché ricreino, nella relativamente piccola realtà scolastica, un tessuto sociale che è stato distrutto nel nome dell’individualismo.

CHIARA: anche in ambito artistico si corre il rischio dell’autoreferenzialità e come se non bastasse, in Italia, la percentuale di chi va a vedere spettacoli teatrali o ad ascoltare concerti è bassissima. Pensi che la scuola possa fare qualcosa per questo?

GIANMARCO: certo! Fosse per me, essendo in un paese che è la patria dell’opera lirica e una delle maggiori mete artistiche del mondo, la storia della musica e la storia dell’arte dovrebbero essere obbligatorie e presenti con più ore in tutte le scuole. C’è anche da dire che la cultura è sempre in mano ai soliti noti da anni e anni, non vengono coinvolti i giovani neppure nei quadri dirigenziali delle associazioni che organizzano eventi: con quale faccia poi queste associazioni pretendono che, quando allestiscono spettacoli di qualsiasi tipo, i giovani ci vadano? Il discorso vale sia in ambito locale che nazionale, ovviamente.
Per l’autoreferenzialità vale quel che ho detto alla tua seconda domanda, e gli artisti autoreferenziali solitamente finiscono dimenticati come è giusto che sia per coloro che parlano solo a se stessi.

Gianmarco Caselli, “Pupille”, by Andrea Del Testa
Gianmarco Caselli, “Pupille”, by Andrea Del Testa

CHIARA: l’insegnamento della musica, in Italia, ma non solo, è davvero limitato e insufficiente. Il sistema scolastico, per la sua struttura, consente che uno psicologo, per esempio, o un medico, un educatore, un insegnante, etc… possano laurearsi a pieni voti ignorando completamente gran parte del nostro patrimonio culturale musicale. Ciò influisce sulla società e sull’idea di essere umano che circola nella coscienza comune?

GIANMARCO: certo. E il risultato è un pubblico disposto ad ingoiare tutto ciò che passa il convento purché non sia sperimentale e si fermi storicamente a Wagner.

Gianmarco Caselli, by Elena Fiori
Gianmarco Caselli, by Elena Fiori

CHIARA: per quanto tu scriva musiche per pianoforte atmosferiche, il tratto più caratterizzante della tua musica è l’elettronica sperimentale e l’utilizzo di oggetti, spesso metallici, in scena. Quanto è rimasto nella tua arte di quando eri bambino?

GIANMARCO: ho sempre cercato di utilizzare l’elettronica in un modo un po’ diverso dal solito. Certamente a volte posso scrivere una musica che sembri più tradizionale, ci può stare. Io, personalmente, e mi riallaccio alla tua terza domanda, non seguo assolutamente alcuna regola. Cerco ogni volta di fare quello che voglio. In questo mi sento molto vicino a quello che fanno i bambini: è come se ogni volta volessi scoprire un mondo nuovo anche nell’utilizzo degli strumenti. Con l’elettronica posso creare tantissimi suoni che in natura non esistono, poi da almeno una decina di anni sono abituato a portarmi un registratore in tasca, a raccogliere i suoni del mondo e poi rielaborarli per costruirci nuove sonorità , ma anche a prendere oggetti come pentole, forchette e quant’altro, e suonarli dal vivo.

041-7571 13.12.14 Spam G. CaselliGianmarco Caselli, “Pupille”, by Marco Puccinelli

Intervista: ROBERTO ROMAGNOLI “KIRTAN”

Chiara Gasperini: Cosa significa pazientare? Significa guardare la spina e vedere la rosa, guardare la notte e vedere l’alba… Alla luna nuova occorre tempo per diventare piena.”
Così scrive Elif Shafak ne Le quaranta porte, così ho pensato quando ho letto le intense e emozionanti pagine che ha voluto regalarci Roberto Kirtan Romagnoli.
Non perché la notte e le spine non siano accettabili, sono, anzi, necessarie, forse indispensabili, per consentire lo schiudersi del giorno o del fiore.
Artifex, è colui che fa, che realizza arte. Colui che attraverso il suo agire del corpo-mente unisce pensieri, idee e materiali che prima si trovavano in un determinato stato e li riorganizza, offrendoli al mondo trasformati, creando nuove armonie, creando ciò che non c’era, perchè nello stato in cui si trovava prima non era percepibile. L’artista entra in comunione così profonda con la realtà, sa amarla così tanto, da fondersi con essa e fluendo ai suoi ritmi accordandosi con l’esistente, sa trasformarlo, alchemicamente, in qualcosa di leggibile e assimilabile da altri. Porta alla luce messaggi impliciti, celati, svelandoli, aprendo alla amorosa magia dell’esistenza.

Roberto Kirtan Romagnoli, è un artista la cui attività spazia in più ambiti d’interesse.

Dopo la laurea in Lettere Moderne, inizia il suo percorso di studio in campo etno-musicale, con maestri di risonanza internazionale. Si contraddistingue come giullare-istrione e studia come attore comico mentre, parallelamente, si afferma come liutaio e costruttore di percussioni del medioevo o etniche. Si specializza anche nel metodo musicale indiano, compiendo in India, Himalaya e in Africa vari viaggi al fine, anche, di avvicinarsi al loro mondo musicale e approfondirne le maestrie.
Il gruppo da lui fondato alla fine degli anni ’90, “Musica Officinalis”, si dedica alla musica medioevale, etnica e popolare anche attraverso progetti indirizzati alle scuole, con seminari e laboratori. Sulla pagina dedicata, si legge: “L’Associazione Musica Officinalis si occupa di ricerca, composizione, esecuzione, produzione e promozione della musica antica e dei popoli, di indagine etnomusicologica e di pedagogia e terapia della musica”.
“Ulisse” o “Pitagora”, due, per citarne alcuni, tra i suoi numerosi spettacoli, con la regia di Loris Seghizzi di “Scenica Frammenti”, sono lavori molto adatti anche alla scuola, capaci di rendere vivi e attualissimi, argomenti spesso affrontati in classe in modi poco vicini alla sensibilità adolescente. Roberto Kirtan è quindi anche un pedagogista e insegnante di musica, oltre che attore e musicoterapeuta. E’ cofondatore della compagnia “Zorba officine creative” e numerosi sono i suoi lavori con il “Teatro Agricolo” di Livorno.
Il modo migliore di conoscere Roberto è quello di leggere le sue parole o di assistere ad uno dei  suoi spettacoli o ascoltare le sue svariate produzioni musicali. Esperienze che consiglio a chi non avesse ancora avuto questa grande fortuna e possibilità.
Lascio la parola a lui, ringraziandolo di cuore per aver accettato con gentilezza e passione il mio ardito invito.

Roberto Kirtan: Oggi che è il giorno della befana è un giorno di storie da raccontare!  Ed io è oggi che racconto la mia:

“Questa è la storia di un uomo che aveva un sogno. Sognava di suonare, suonare uno strumento, vivere la musica dalle sue mani.
Ma nel paese dove viveva nessuno gli credeva, e nessuno credeva che avesse le possibilità per farlo.
Così passò il tempo, passarono gli anni e quel sogno scivolò in un cassetto dove rimase in segreto nascosto per lungo tempo.
Finchè un giorno il cassetto si aprì ed il sogno se ne uscì volando via nel vento.
L’uomo si fece triste, ora non c’era più neppure il sogno nel cassetto. Il tempo continuò il suo cammino e così fece anche quell’uomo e a poco a poco si dimenticò del suo sogno.
Ma un giorno, un giorno come un altro, accadde qualcosa di incredibile.
Un amicò lo pregò di andare insieme a lui da un maestro musicista, per provare il ritmo della vita, il battito del cuore e la forza di quel suono.
L’uomo era perplesso ma poco dopo varcata la soglia della stanza vide un altro uomo. Da lontano non si capiva chi ben fosse.
Chi era? E cosa suonava? Mano a mano che si avvicinò l’uomo vide e riconobbe se stesso suonare un tamburo.
Quell’uomo, quel giorno, capì che il sogno non era volato via dal cassetto ma era corso ad avvertire la vita che mandasse gli uomini giusti, quelli capaci, quelli fiduciosi per far nascere un nuovo uomo ed un nuovo musicista.”
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Ecco la storia che racconta la mia storia. L’ho scritta per me e per tutti. La storia di un uomo che cerca quotidianamente di realizzare il sogno.
E tutto parte tanto, tanto tempo fa quando ero bambino.
Il mio rapporto con l’arte da bambino è stato normale, come tanti bambini: mi piaceva disegnare, suonare, cantare, ballare e colorare. Quello che è stato speciale sono state due cose:
una maestra elementare illuminata,
ed un grave incidente che mi ha portato l’amputazione parziale del pollice destro.
La maestra Vera Masoli aveva una passione smodata per fiori, piante ed animali.
Io sono cresciuto in un piccolo paesino della campagna faentina in provincia di Ravenna, eravamo contadini.
E lì i fiori non mancavano! Così per tutti i cinque anni delle elementari tutti i santi giorni c’era da cambiare l’acqua ai fiori, recidere le parti esauste, curare le piante che avevamo in classe, l’albero piccolo che era stato preso il primo giorno di scuola e che sarebbe cresciuto con noi fino alla fine del quinto anno. Poi lo avremmo piantato nel giardino della scuola a ricordo e segno del nostro passaggio.
Ma vogliamo parlare degli animali?
La Vera non disdegnava gli acquari, quindi noi pescavamo nel Naviglio persici, carpe giapponesi, salamandre, girini, cobiti, e tritoni.
Questi esseri erano meravigliosi nel suo essere brutti! I girini diventavano nelle settimane rane e cosi le salamandre mostravano assieme ai tritoni la trasformazione da piccoli in adulti.
Le prime due ore in classe passavano a sistemare lo zoo e la giungla che si creava dopo qualche mese.
Tutto era posto su un’altra cattedra appositamente richiesta dalla Vera!
I turni cambiavano. Noi conoscevamo lo scorrere delle stagioni dall’alternanza dei fiori, così come il trasformarsi della vita con gli animali. Tutti avevano nomi. Erano sotto la nostra diretta responsabilità.
Così la Vera ci insegnava ad accettare la morte quando a volte arrivava inaspettata sui nostri animaletti.
Disegnare direttamente la natura, creare e imitare le forme che la natura ci  offriva  più che insegnarci ad essere grandi artisti ci insegnava ad apprezzare la bellezza, l’armonia ed il mistero del mondo. I colori passavano dal vero al fantastico con la coscienza di chi ha potuto osservare. Le nostre mani diventavano esperte non solo della bellezza e del segreto dell’armonia nascosta nella natura, ma anche del fare, del realizzare, del creare. Mani da pittore, giardiniere, veterinario, fiorista, mani che facendo accrescevano la nostra intelligenza. Il lasciarci fare e realizzare questa avventura è stato il grande regalo di questa misteriosa maestra.
Così il mio spirito e la mia intelligenza nonchè il mio cuore furono per sempre connessi all’arte di scorgere nella natura l’armonia,
di cercarla nella mia vita ed intorno a me, di accordarmi in continuazione con la vita che si vive.
L’arte, ormai, aveva intaccato per sempre la mia anima, la mia persona, il mio cuore.
Forse un giorno sarebbe diventata una necessità, ma questo non si sapeva e non aveva nessuna importanza.
Un artista non è una persona speciale. E’ la sua natura, così vuole l’universo che possa esprimersi e riconoscersi, ma non riveste una importanza speciale. Tra lui ed un ingegnere o netturbino non passa differenza.
Tutti sono fondamentali.
Il secondo evento fondamentale per l’arte è stato l’incidente che ho subito a cinque anni e mezzo.
Nella falegnameria dei miei nonni, causa la mia disubbidienza, presunzione, e sfortuna mi amputai la prima falange del pollice destro in una pialla. 20.000 giri al minuto. un colpo netto.
Non ci fu nulla da fare. Il dito era perso per sempre, nel 69 una plastica, ricostruzione o protesi o trapianto non era minimamente pensabile. Così cominciò la mia avventura nel nuovo mondo: il mondo senza un ditino!
Ecco il miracolo: il chirurgo che mi operò era un angelo del signore e dopo l’operazione così disse:
-Questo bambino ora è nelle vostre mani. All’inizio farà fatica con tutto. Avrà sempre la sensazione di non farcela, di non poter essere indipendente in qualsiasi azione che contempli l’uso delle mani.
Ma voi dovrete essere spietati e lasciare che si arrangi finchè non riesce nel suo intento.
Alla fine se creerete un monco sarà solo stata vostra responsabilità.
Questo bambino dovrà poter credere di fare tutto, di essere normale, di vincere la realtà e realizzare così le sue idee ed i suoi desideri.
E così proprio in quella falegnameria che mi aveva distrutto ho costruito tutta la mia personalità creativa, la mia vena inventiva e le mie capacità di mettere in pratica idee.
Proprio lì con il legno ho dato vita ai sogni. La falegnameria era il ritrovo con i miei amici. Abbiamo costruito di tutto: archi, frecce, pistole, fucili, scudi e spade, costruivamo i ponti ed i lanci per la gimkana con le bici, truccavamo e colorevamo le bici, inchiodavamo, segavamo, incollavamo le idee.
Fare, fare e fare…..divertirsi, realizzare, giocare e continuare a sognare.
Quel luogo di disgrazia è stato poi il luogo più incredibile della mia vita.
Se penso ad oggi che nella mia carriera di artista sono anche liutaio e cioè costruisco strumenti, beh, grazie davvero.
Dico sempre un dito è stato nulla confronto tutto quello che mi ha dato il suo non averlo.
L’arte è legata all’azione. Michelangelo all’età di sette anni preparava già la scagliola per i fondi degli affreschi.
Bisogna stare in bottega.  Mi fanno sorridere gli artisti moderni che hanno le idee, ma poi per realizzarle non sono in grado!
Ah Ah, vogliono lavorare il ferro e non sanno fare, il legno e non sanno fare, il vetro e non sanno fare, ….. e non sanno fare…
Si d’accordo si può avere una idea ma è sempre la mano di un altro che la realizza.
Ma allora l’affinità con la materia? La sua conoscenza atomica? Insomma io ci sentirei lontananza….
Chiara Gasperini:  qualche consiglio…
Roberto Kirtan: Consiglierei ai bambini di vivere nella natura, con la natura, sia vegetale che animale. Vivere fuori, salire e cadere dagli alberi, costruire le capanne, fare palle di fango e poi seccarle…..
Dovrebbero essere educati alle proporzioni, alle forme , alla vita che le produce e cambia come vuole.
Consiglierei  ai bambini di non giocare solo con i video giochi, che oltre a rovinare loro la vista per sempre li rimbecilliscono.
Si la tecnologia come gioco ma non può sostituire la magia del mondo vivo.
Consiglierei ai bambini di stare all’aria fresca, di prendersi cura del mondo, di prendersi la responsabilità di essere nati, qui ed ora e dare una mano per evolvere il mondo umano.
Consiglierei ai bambini di non mangiare così male come mangiano e di non dormire così male come dormono.
Consiglierei ai bambini la meditazione, lo sport e la cura ed il lavacro del corpo.
Consiglierei ai bambini di essere amici degli elementi.
Per quanto riguarda il disegnare:
Si mi capita di disegnare! mi piace, fare i personaggi, le casette, le montagne, i fiori e le nuvole con stormi di uccelli neri nel vespero migrar! Disegno come bimbo, ma conserva spontaneità!
La matita, i pastelli Giotto, a cera, acquerelli…non mi piacciono molto i pennarelli!
Il disegno ammetto che è più raro nella mia quotidianità, ma non lo lascio.
Ascolto si, storie raccontate da altri. Mi piace moltissimo il racconto in sè. Mi piace seguire la trama, immaginarne l’evoluzione, vivere la vita del protagonista o dei personaggi attorno a lui.
Mi immedesimo, voglio che la storia vada in altre direzioni, mi diverto, a volte, a cappottare gli eventi.
Ma soprattutto, ogni cosa raccontata è una storia, anche i fatti di vita.
C’è gente che racconta la propria vita o quella altrui in maniere fantastiche, comiche, tragiche, esilaranti, intelligenti, piene di suspance…piene di come quella persona vede il mondo!
Racconto storie forse perchè ne ho sentite tante.
Forse perché la vita è un racconto e ogni racconto è un po’ come vivere, imprevedibile sino alla fine.
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E dopo sto papiro egizio mi pongo una domanda:
L’arte è una necessità per l’uomo?
La risposta per me è si! Non lo ha costretto nessuno fin dalla notte dei tempi, ha cominciato a farlo da solo.
Sotto le stelle, attorno ad un fuoco l’uomo a cominciato a dare forma a ciò che forma non ha, cioè i suoi pensieri, le sue idee, le sue paure , le sue certezze, insomma tutto ciò che è “dentro” e non visibile agli occhi.
Perché come diceva il piccolo Principe.”L’essenziale è invisibile agli occhi”.
Ma l’uomo ha sempre voluto vedere se stesso e conoscersi e così l’arte è la via.
Una via meravigliosa, fatta di mille peripezie, insidie, avventure, pericoli, scelte e conseguenze.
L’arte dà anche la possibilità agli uomini di toccarsi  dove tocco non c’è. Si toccano l’anima, si parlano da anima ad anima.
Impossibile con qualsiasi altro linguaggio.
Quindi penso che fare arte non è direttamente connesso con chi di questa arte, qualsiasi sia, ne ha fatto il proprio lavoro, ma piuttosto il fare arte è affare umano, e di quegli umani che hanno dentro il continuo desiderio di creare per omaggiare la creazione stessa che incessante crea infinite forme finite. La passione ne è un segno evidente.
Ecco questo e tanto altro potremmo dire, ma al contempo non c’è più molto da dire se non che suonare, ballare, dipingere, scolpire, raccontare una storia….
….e fare un bel cesto natalizio, preparare una bellissima tavola, ed infine una stupenda pietanza. Per fare questo ci vuole arte.
L’arte di vivere…il succo è quello, l’averlo frequentato aiuta a viverlo nella quotidianità…perchè sei più nella vita di tutti i giorni che sul palcoscenico! Quindi impara a fare un piatto di linguine allo scoglio da urlo e sapere quale meraviglioso vino potresti abbinarci!
IAGO-Collinarea-2012
IAGO-Collinarea-2012

Intervista: ERIKA GABBANI, “Nasonero”

Tra colline dolci di viti e ulivi, ville e macchia mediterranea, nonostante minacce varie e ripetute alla sua delicata, ricercata e pacifica bellezza, equidistante da Pisa e da Livorno, resiste Crespina. Un paese dal fascino ottocentesco e dal carattere decisamente raffinato dove l’arte è di casa, la si respira, la si vede, la si tocca grazie ad un passato da difendere e celebrare con sempre più convinzione.

Veniamo ai giorni nostri. Proprio da Crespina arriva Erika Gabbani, una metà dell’artista Fupete – l’altra metà è Daniele Tabellini –, ed è venuta a trovarci, con nostro grande piacere e gratitudine. La caratterizzano esperienze internazionali, cicli di mostre in Italia e all’estero, organizzazione di eventi e iniziative culturali, produzioni artistiche dal carattere decisamente hard rock, articoli, cataloghi, una grande professionalità e una recente e  crescente attenzione al mondo dell’infanzia, con laboratori e interventi personalizzati.

Conosciamola meglio…

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“Nova 2012”, San Paolo, Brasile

Ciao Erika, che rapporto avevi da piccola con il disegno? 

La linea di confine sono state le medie. C’è stato un prima e un dopo. Prima ho disegnato sempre. Disegnavo per vari motivi. Disegnavo per passare il tempo, quando non mi vedevo con gli amici, disegnavo vestiti per le mie bambole e li producevo, disegnavo per la scuola, un sacco di cartine geografiche, un sacco di disegni a educazione artistica e un sacco di disegni/illustrazioni per esprimere meglio quello che volevo dire in un tema. Alle medie mi occupavo sempre di disegnare i titoli dei manifesti di scuola, ero richiesta per i caratteri cubitali e per le idee su come impostare le cose. Mi ricordo che feci anche il loghetto della classe, la 3A, due palme incrociate e un’amaca. Già sapevo cosa mi piaceva!! Adoravo la mia professoressa, mi dava un sacco di stimoli, mi mettevo ad osservarla mentre disegnava e imparavo così. Mi è sempre sembrato naturale disegnare e colorare, talmente naturale che era come respirare, era un tutt’uno per me.  Poi le superiori… tan tan tan tan… volevo fare il Liceo artistico a Lucca, ma secondo i miei era troppo distante e soprattutto, la scelta, secondo loro, era poco pratica. Perciò Ragioneria, dove per sopravvivere allo schifo, mi inventai gli schemi di economia aziendale più belli della scuola.

Disegno Storie - erika_barcellona
Erika, Spazio Rojo, Barcellona

Chi sei adesso?

Sicuramente sono un essere camaleontico e da una ventina di anni mi occupo di arte contemporanea, in vari modi e sotto vari nomi: Erika Gabbani, Gerjka, Erika Nasonero, Nasonero, Fupete, Cresperimentart, Drawingalive… Ho iniziato come curatrice d’arte a Crespina (PI), durante i primi anni di Università: da piccole mostre, volte a diffonde e promuovere l’arte, a ideare contenitori d’arte, come il festival CresperimentArt. Poi Roma, dove dopo la laurea in Storia dell’Arte, ho fatto un Master presso il MLAC – Museo Laboratorio d’Arte Contemporanea de La Sapienza e ho conosciuto Daniele, la mia metà nella vita e nel lavoro. Abbiamo fondato insieme Studio Fupete, un ciclo di mostre di artisti italiani e internazionali, e uno studio di grafica, di cui sono design manager e producer. Sono iniziati i viaggi, il Messico, il Brasile e giri e giri in Italia ed Europa e il nostro ultimo festival internazionale Drawingalive. Nel frattempo, come campo base siamo tornati in campagna, soprattutto io, la adoro, e con Daniele abbiamo fondato Nasonero, il nostro studio associato, che questo anno compie 6 anni. Sono anche artista, per adesso molto timida, ma metà di Fupete, il nostro alter ego artistico, non solo come manager e curatrice come all’inizio, da un po’ di anni mi occupo anche di inventare e realizzare idee e progetti. Non c’è tutto quello che abbiamo fatto sui nostri siti web, ma il feeling e l’atmosfera ci sono tutti: www.fupete.comwww.drawingalive.netwww.nasonero.com

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Fupete “Headempty”

Chiara, bambini, dislessia…

Con Chiara ci conosciamo dai tempi delle primarie, poi abbiamo avuto giri diversi ma negli ultimi anni ci siamo conosciute meglio, durante le nostre ore di Jogging in campagna. Io mi stavo occupando di corsi di disegno e lei era affascinata dall’arte, … parlando e parlando, grazie a Chiara, mi occupo di dislessia e bambini. Una delle attività che negli ultimi anni più mi affascinano. In quelle ore, passate con i bambini, mescoliamo di tutto, schemi, mappe, chiacchierate, video, ballo, teatro e tante risate… per me, anche questo è fare arte, è un altro lato della medaglia, uno bello.

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Fupete Creations
Disegno Storie - erika_travelling Disegno Storie - erika_drawingalive_cittadelmessico
Erika Gabbani e Daniele Tabellini, “Fupete”, Travelling “Drawingalive”,
Città del Messico

(Photo © courtesy Erika Gabbani, tutti i diritti riservati.)

Intervista: ARIANNA LOMBARDI “Io e l’arte”

La nostra prima graditissima ospite è Arianna Lombardi: pittrice e musicista, oltre che insegnante di Yoga.
Le sue opere sono ricche di colori accesi, la forza delle linee e dei tratti, insieme al carattere dei materiali utilizzati, imprimono una connotazione personalissima che si impone con determinazione all’attenzione di chi osserva.
È possibile conoscere le sue numerose e varie attività direttamente sul suo sito
Che rapporto aveva con l’arte “Arianna bambina” e come si è trasformato nel tempo questo rapporto speciale?

Credo che fin da bambina sono stata “arte”.

L’arte è strettamente connessa alla capacità di trasmettere messaggi ed emozioni soggettive.

Un ricordo vivo del passato, riguarda la mia maestra delle elementari, che, lamentandosi con mia madre, le ricordava che ero troppo emotiva e che questa emotività in qualche modo andava calibrata!

Emotività!

E’ stata la mia forza nella vita; l’emotività ci connette con l’anima, le percezioni, le sensazioni: la vista, il gusto, il tatto, l’olfatto, l’udito…. tutti i sensi concorrono all’esaltazione dell’emotività e ad una sua rappresentazione nel campo che più ci rispecchia.

https://www.disegnostorie.it/intervista-arianna-lombardi-larte/
Devo dire che gran parte della mia produzione artistica, risale ai momenti più bui o di tensione che ho passato; le tele, come altri materiali, sono state le mie pagine bianche, dove mettere nero o colore su bianco le mie emozioni più profonde, dando espressione estetica alle esperienze personali.
Mi ricordo ancora bambina, ascoltando la primavera di Vivaldi, il foglio vergine e l’odore dei pastelli che un pò come le sirene di Ulisse, mi traghettavano lontano, dando forma ai suoni della primavera.
Che bellezza…. Avrei disegnato e suonato tutto il giorno!
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Nell’età adolescenziale, la scelta di un’istituto artistico, mi ha permesso di approfondire tecniche varie e lo studio dell’arte.
E’ interessante notare, come lungo l’arco delle nostre vite, le esigenze di un ‘individuo cambino, la maniera di fare arte cambi, ma sempre arte resta.
Le sperimentazioni del ready made, stile Duchamp, lo studio tridimensionale utilizzando l’argilla, la grafica pubblicitaria, lo scrivere articoli su una rivista specializzata sulla passione del momento (il wind surf), tirare su un locale per la musica dal vivo, creando atmosfere underground, tutto è arte, trasmettere, appunto, dei messaggi.
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Ad un certo punto il buio.
Anni di non produttività…… ma arriva lo yoga.
Tutto ciò che ho descritto fino ad adesso, traslato nelle pratiche.
Mettere su una lezione di yoga ha il medesimo iter di una composizione artistica, anche musicale: progressione, ritmo, pausa, spazio, colore, immaginazione, è pura arte, una vertigine di infinito!  
La mia vita è arte, dal cucinare, dal coltivare le relazioni, da come prenderà forma il mio orto, da come sarà la mia futura casa.
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L’arte è quell’ingrediente che da’ sapore alla vita, portandoci oltre i limiti, i pregiudizi, affondando nell’infinito, dove tutto è possibile.
E adesso?
Adesso insegno yoga e meditazione a tempo pieno, mi diverto a suonare il flauto e l’armonium, questa è la mia arte attuale; ma non ho abbandonato l’arte intesa come arte applicata, perché durante il periodo estivo, mi “diverto” a dipingere piccole miniature di paesaggi toscani e di città d’arte con tecnica mista (acquarello e china).
https://www.disegnostorie.it/intervista-arianna-lombardi-larte/

 

 

Devo dire la verità, quando dipingo, il tempo non esiste, mi calo nei colori che daranno forma alla miniatura e mi sento un tutt’uno con la mia anima, essere nella bellezza in quel preciso istante con tutta me stessa……. pura arte della meditazione!

Per me non esiste un unico linguaggio artistico e neppure un’unico codice di interpretazione, sta’ a noi trovare il giusto canale di espressione, per esprimere tutta la passione che è dentro di noi, che altro non è che passione per la vita.
                                                                                                           Arianna Lombardi

I bambini e l’arte: le mie interviste

In questa sezione interviste a artisti che volentieri hanno voluto raccontare di sé. Un modo per dialogare anche con il nostro artista interiore, bambino o adulto che sia.

Immagino di sedermi su un antico tappeto persiano, bellissimo e accogliente e come in una sera tra amici immagino di lasciarmi andare a ascoltare storie, emozioni e sogni.

Le nostre conversazioni riguardano l’arte ma soprattutto il rapporto con l’arte che avevamo da bambini.