Tra colline, cavalli e ulivi si trova Equinolium, la tana di Ojito, l’artista che sto per incontrare.
Ojito è un artista circense che non ama molto le interviste, ma per oggi, ha fatto un’eccezione raccontando un po’ di sé e della sua visione dell’arte.
Ojito è il fondatore materiale e ideale del circo Krom e ne ha creato la visione filosofica di fondo. Il circo Krom è un circo contemporaneo nella cui presentazione Ojito scrive: “Siamo un circo contemporaneo, che ha scelto di vivere lo spettacolo della vita. Per noi fare circo è vita, è l’insieme di tutte le arti, è gioia e dolore insieme. Il nostro chapiteau è il luogo dove ci esibiamo, e dove creiamo laboratori-scuola di circo, teatro, danza…per dare la possibilità a tutti di “tirare fuori” la propria espressività artistica.
Siamo nomadi e amiamo il viaggio oltre ogni barriera imposta. Viviamo in modo comunitario e riconosciamo la terra come nostra unica madre, cercando di rispettarla il più possibile con l’amore per gli animali, il riciclo e il riutilizzo di materiali di scarto. Ci proponiamo di sperimentare spazio e tempo, scegliendo di vivere rinunciando ai ritmi frenetici imposti dalla società odierna per realizzare, crescere, condividere, creare e…sognare…”
Rivolgo all’artista qualche domanda e mentre lo ascolto rispondere con il suo accento greco e le sue narrazioni oniriche mi sento un po’ fuori dal tempo e dello spazio.
Raccontaci un po’ di te e di come sei diventato clown
Sono nato il 3 marzo del 1984 a Salonicco in una allegra e numerosa famiglia dove sono stato il primo di 12 figli. Mio padre giocava spesso con noi e con gli altri bambini del quartiere. Ho lasciato la scuola abbastanza presto e quando ci andavo a volte entravo in classe direttamente dalla finestra posta al secondo piano visto che già mi piaceva fare il funambolo e arrampicarmi sugli alberi.
A 14 anni ho incontrato un amico giocoliere e mi è capitato di vedere in video il Cirque du Soleil. Si può dire che è iniziato tutto da lì, la mia energia si è come risvegliata. Ho iniziato così e a 17 anni già lavoravo come trampoliere e giocoliere.
Cosa è oggi come oggi il circo?
Prima di tutto il circo è una dimensione internazionale, aperta, multiculturale alla quale non si addice il concetto di confine o di frontiera. Il circo lo fanno gli artisti e non si diventa artista o clown con la disciplina o con l’allenamento si tratta di essere più che di diventare. Se non c’è dentro qualcosa di folle se non si è un po’ il jocker non si è artisti.
Per stare in un circo bisogna sentirsi parte di una famiglia, di una comune, non basta saper fare qualcosa di artistico.
A volte restare fedeli alla propria visione del mondo è molto duro e si possono perdere amici per questo, si può essere giudicati o allontanati. Essere circense vuol dire essere animati dalla voglia di libertà, dalla voglia di sconfiggere l’ignoranza e dal profondo desiderio di cambiare il mondo.
Se sei un giocoliere ma non vuoi cambiare il mondo allora sei soltanto la metà di quello che potresti essere.
E poi, soprattutto il circo è festa.
Ma allora cosa deve saper fare un clown per definirsi tale, secondo te?
Tutti possiamo essere un clown perché tutti portiamo un clown dentro di noi.
Il clown è colui che ti fa “piangere o ridere” e il clown più bravo è quello che riesce a farlo toccandoti più profondamente e se poi lo riesce a fare con meno cose possibile è meglio.
Quanto allenamento c’è dietro ai tuoi spettacoli?
Fino a 25 anni mi sono allenato costantemente e intensamente oggi ho imparato ad allenarmi anche facendo altre attività più legate alla natura.
Di cosa pensi che abbiano bisogno i bambini oggi, per poter crescere bene in questa società?
I bambini sono le chiavi del paradiso. Il mondo dovrebbe essere più a misura di bambino offrendo spazi pensati e costruiti per loro. Gli adulti dovrebbero giocare di più con i bambini e imparare a riconoscere i loro reali bisogni.
Il nostro stile di vita (cibi, vita sedentaria, prodotti chimici, ambienti, certe modalità educative iperprotettive) ci indebolisce molto e per rinforzarsi i bambini avrebbero bisogno di esperienze maggiormente a contatto con la natura e con l’aria aperta e con gli animali per mettere alla prova il loro corpo e le loro capacità ma anche per sperimentare la libertà di superare i loro “limiti”.
Anche la scuola potrebbe essere ripensata e riorganizzata a misura di bambino (tanti argomenti che si affrontano sono inutili all’età in cui vengono proposti).
Il futuro sono i bambini: è necessario migliorare l’educazione e le modalità dei genitori, della scuola, della società per far crescere i piccoli nel miglior modo possibile.
Che rapporto c’è tra circo tradizionale e circo contemporaneo?
Il circo contemporaneo nasce e si sviluppa dal circo tradizionale e questo va riconosciuto. Non si può essere contro il circo tradizionale perché tutto nasce da lì e tutti noi dobbiamo molto a quel modo di fare spettacolo (animali, freacks, pista rotonda etc..).
In Italia ci sono città come Bologna, per esempio, che incoraggiano molto la diffusione e la ricerca delle arti circensi appoggiandole con progetti e fondi e favorendone così la diffusione, altre città invece, al contrario, sembrano ostacolarle in ogni modo.
A differenza dei circhi tradizionali che si fermavano ai confini della città e costituivano un mondo chiuso che andava e veniva senza lasciare traccia, oggi molti circhi contemporanei invadono la città per promuovere progetti interculturali e di ricerca artistica e sociale come succede, per esempio, con El Grito o con il Forum Nuovi Circhi promosso da FNAS che intendono favorire l’incontro delle comunità di circo con la comunità residente e coinvolgere sempre di più il pubblico.
Come definiresti Equinolium, questa realtà che hai fondato qui, in Toscana, tra ulivi e querce centenarie?
Equinolium è un luogo dove arte e natura si fondono e stanno in sintonia. Un luogo appena nato aperto alla collaborazione con sognatori di ogni tipo purché animati da opinioni “diverse”. Un luogo di accoglienza, dove si può imparare l’arte e dove si può imparare a sintonizzarsi con le esigenze della natura. La natura va curata e la cura della natura è un’arte. Chi crede che la natura vada lasciata in pace, nella sua selvaticità ha ragione ma è anche vero che per ragioni di sopravvivenza si può anche dominare la natura: togliere erbe nocive per fare crescere le buone, tutto è un’arte. Prendendoci cura della natura impariamo sempre di più e possiamo allenare il nostro corpo e il nostro spirito, accrescere la nostra energia, giocare. Tutto questo significa stare aperti alla diversità e riconoscerlo come un privilegio. Equinolium è aperto ad ogni tipo di proposta e di collaborazione. Abbiamo il cavallo, maestro di umiltà e di pazienza ma anche di naturalità e di libertà. Imparando a comunicare con il cavallo e apprendendo il suo “linguaggio” è possibile rendersi conto che è necessario lavorare costantemente con la propria presenza in un modo psicomotorio e ciò porta a migliorarsi sempre. Infine, a Equinolium produciamo olio, questo regalo che la natura ci offre quando è curata, olio che per noi è oro e tesoro.
Questo rapporto tra uomo e natura è un qualcosa su cui interrogarsi sempre: l’uomo è intervenuto ormai su quasi ogni processo naturale con progressi senza limiti. Tuttavia è necessario stabilire cosa togliere e cosa tenere di tutto questo, sperimentare nuove modalità di intervento più rispettose dell’ambiente e di chi lo popola. Vogliamo percorrere strade nuove, esplorare modalità, continuare a riflettere su come agire nei confronti dell’ambiente consapevoli che questo richiede forza e energia costanti. La famiglia, gli amici e l’amore ci rendono più forti aiutandoci a fare sempre del nostro meglio.
Massimiliano Maiucchi è clown, animatore, cantautore, scrittore, burattinaio e artista di strada ma soprattutto è uno straordinario sognatore: la sua frase preferita è “sono un clown e faccio collezione di attimi” (Opinioni di un clown, Heinrich Böll).
Questo è un artista con la “a” maiuscola, proprio come quelli che popolano il nostro immaginario e che spereremmo di trovare andando a vedere uno spettacolo divertente: sa fare tantissime cose e riesce a cogliere di sorpresa con simpatia e intelligenza adulti e bambini trasportandoli in una dimensione di gioco e appagante divertimento. Da oltre trent’anni diverte bambini e adulti con la lettura, le storie, gli spettacoli, le canzoni e soprattutto con le filastrocche.
Nella sua formazione, oltre a molti altri corsi, un diploma di maturità artistica e un altro conseguito presso la scuola di Teatro Popolare di Fiorenzo Fiorentini al centro studi “Ettore Petrolini” di Roma. Socio-fondatore dell’associazione il Flauto Magico con la quale si è esibito e si esibisce regolarmente al teatro Verde di Roma.
Personaggio eccezionale che trae ispirazione da Gianni Rodari (e molti altri) per scrivere e leggere storie ai bambini facendo spettacolo con l’aiuto di oggetti, libroni e pupazzi e educando al piacere di leggere con un metodo efficace, esperto e divertente.
Consapevole della magia evocata dalle parole ne è diventato maestro in grado di suscitare in chi lo ascolta la fantasia e il confronto aiutando così i piccoli a crescere con la gioia di giocare e imparare.
Cosa ti piace raccontare di te per presentarti a tutti quelli che non ti conoscono?
MI PRESENTO IN FILASTROCCA
Mi chiamo Maiucchi Massimiliano,
tifo Juventus ma sono romano.
Sono il secondo di quattro fratelli
e sono cresciuto in Via Pilo Albertelli.
Mi piace viaggiare, mangiare e ballare,
ma soprattutto mi piace giocare.
Ho cinquantatré anni compiuti a metà,
mi chiamano Jully ed eccomi qua.
Ti esprimi sostanzialmente in filastrocche, come è nata questa passione?
La passione per le filastrocche è nata grazie a mia nonna che ne sapeva tantissime, una per ogni occasione e poi leggendo le filastrocche di Gianni Rodari,
che è stato il maestro di “grammatica della fantasia” che ho spesso applicato alla mia scrittura.
Con iltuo lavoro hai a che fare soprattutto con bambini e tu che tipo di bambino eri?
Da bambino ero molto amato dai compagni ed ero molto giocoso, collezionavo figurine, Play Mobil e animali.
Come partecipano i bambini ai tuoi spettacoli?
I bambini sono parte integrante dei miei spettacoli, sono chiamati a partecipare continuamente, sia mimando le filastrocche e sia con domande.
Bisogna saper passare la palla ai bambini e riprenderla quando è il momento, per non perdere il ritmo dello spettacolo, che è quello che determina l’attenzione e la partecipazione del pubblico.
Tipiace di più lavorare all’interno o in strada?
Lavorare all’interno determina una struttura e un’ attenzione allo spazio molto importante. Le sedie vanno posizionate nel modo giusto quando si lavora con i bambini.
L’ordine è alla base della riuscita dello spettacolo. Lavorare in piazza o ai giardini pubblici, ha il fascino dell’imprevedibilità, anche se anche all’aperto ci sono regole sceniche da rispettare.
Nella tua carriera avrai animato migliaia di feste: ci sono stati episodi simpatici o situazioni complicate durante le animazioni che ti sono accaduti e che puoi raccontare?
Un episodio divertente è stato quando ad una festa di bambini molto piccoli, in un circolo molto elegante, la festeggiata ha ricevuto in regalo uno scivolo e tutti gli invitati si sono messi in fila per salire e scendere.
Al quarto giro, le mamme si sono accorte che tutti i bambini erano sporchi di cacca e tra le risate e l’imbarazzo,
ogni mamma è andata a controllare il proprio figlio, per scoprire l’origine della diffusione.
Pensi che nel tuo lavoro ci sia anche una valenza educativa?
Si sono consapevole della valenza educativa del mio lavoro. Il bambino impara giocando e la filastrocca è una fonte di memoria e conoscenza.
In questo ultimo anno, dove tutte le nostre abitudini consolidate sono state stravolte, sei riuscito a continuare la tua missione ludica?
In questo ultimo anno, la possibilità di mettere in atto il mio lavoro è stato praticamente annullata. Sono riuscito a fare molti video che ho condiviso, specialmente durante il primo Lockdown. Ho portato a termine alcuni progetti editoriali.
Da poco è uscito il mio ultimo libro con Edizioni Corsare dal titolo “E’ vVIVA LA SCUOLA” e ora sta uscendo un nuovo disco autoprodotto che si intitola “C COME CANZONE”
che contiene nove canzoni tradizionali, arrangiate insieme al mio compagno d’avventura Alessandro D’Orazi e tre canzoni inedite, tra cui la nostra canzone di natale “TLIN, TLIN, TLIN”.
A settembre esce il nuovo audiolibro, che ho scritto insieme al mio amico Vittorio marino: “CORRADO L’ASTRONAUTA E I PIRATI DEI BUCHI”
Inun mondo utopico immaginato da te come potrebbe essere fatta la scuola?
La scuola sarebbe all’incontrario:
Alla scuola all’incontrario
la maestra ha il diario
e ha pure la cartella,
il quaderno e la pagella
(dove i voti, fatto raro
ce li mette lo scolaro).
Se per caso fa la lagna
lei va dietro la lavagna,
mentre intanto i ragazzini,
fanno guerra a cancellini.
Per calmare il gran macello,
la lezione fa il bidello.
Fa lezione giù in cortile
con gli alunni su due file,
per giocare a nascondino,
guardie e ladri e l’assassino
ed infine acchiapparella
finché suona campanella.
Affacciata alla finestra
ha capito la maestra:
per studiare ed imparare,
c’è bisogno di giocare.
Tra tutte le tue pubblicazioni ce n’è una alla quale sei più affezionato e perché?
Ogni pubblicazione è stata importante ed è per me un pezzo della mia vita. Sicuramente il primo libro Il bruco sognatore lo porto nel profondo del cuore, anche perché contiene le primissime filastrocche che ho scritto, nel 1998.
Ma anche il penultimo che è uscito nel 2019 e che si intitola Roma fa rima ( Palombi Editori) è molto importante, perché è il mio primo libro rivolto soprattutto ai grandi e perché le illustrazioni le ha fatte un altro mio grande amico, Fabio Magnasciutti.
Grazie alla tua attività hai modo di vedere i bambini sotto un’altra veste rispetto a come li vedono gli altri: hai qualche consiglio da dare agli educatori/genitori, sulla base di ciò che vedi ogni giorno nel tuo lavoro?
Non bisogna usare i microfoni e l’amplificazione. La voce che esce dalla bocca e non dalla cassa è molto più efficace e vera. Poi certo, quando ci sono duecento bambini, allora si può usare. Ma con pochi bambini NO!!!
Se tu incontrassi Massimiano Maiucchi bambino a una delle tue feste che gioco gli faresti fare?
Massimo Nicolaci è un artista catanese di grande talento che dopo aver vissuto a Roma e in molti altri luoghi ha ora scelto di risiedere a Berlino.
In seguito a una formazione di rilievo con artisti che hanno segnato la storia della fotografia Nicolaci ha iniziato a mostrare la sua personalità curiosa ed errante in grado di trovare un nuovo poetico realismo da offrire allo spettatore. Dalle opere di Nicolaci trapela tangibile il suo percorso culturale ricco e caratterizzato da una grande apertura alla pluralità delle esperienze.
Ha conseguito numerosi riconoscimenti per i suoi lavori e ha collaborato con prestigiose riviste internazionali come National Geographic o Rolling Stones. Nel corso della sua carriera ha lavorato sul set di “I tempi felici verranno presto” di Alessandro Comodin e pubblicato un libro “La Cerva Bianca”.
La fotografia riesce a creare punti di vista nuovi su ciò che è ordinario allentando la trama del reale. Siamo abituati a sguardi frettolosi, a stupirci solo del sensazionale ma questa forma d’arte invita a soffermarsi, a giocare con l’osservazione.
A tutti gli effetti si tratta di un’arte filosofica perché desta stupore attraendo l’attenzione su qualcosa che sfugge e passa via.
Certo non si tratta di copiare la realtà tout court ma si tratta di offrire visioni alternative, punti di vista a volte anche distanti dal reale comunemente inteso. La fotografia è in grado di decentrare e offrire spunti di critica culturale riguardo a ciò che siamo o pensiamo di essere.
In questo particolare momento storico dove è necessario reinventarsi e scoprire prospettive nuove da percorrere quest’arte ci è particolarmente cara.
Nei lavori di Massimo Nicolaci non è la scelta del soggetto straordinario a conferire fascino e narratività ai suoi lavori, ad esserlo è, invece, il modo di fotografare.
Scatti che lasciano affiorare racconti e che con delicatezza creano contesti dove la realtà si confida facendosi talvolta onirica.
Che si tratti di una stazione di notte, Ground Floor, di un lavoro sul set cinematografico o dei ritratti, il carattere dell’artista si contraddistingue in modo originale per un frame sempre ben riconoscibile.
Il fotografo sembra dissolversi per dare vita a inquadrature che tolgono il non necessario e lasciano affiorare immagini che vogliono essere svelate.
Non c’è nulla di artefatto o di fittizio, nulla di costruito ad hoc per ammaliare bensì la ricercata capacità di svelare e offrire.
La personalità dell’artista si mostra in particolare nei ritratti dove il protagonista indiscusso della composizione è lo sguardo che appare confidente e intimo, prossimo a chi guarda nella semplicità di un incontro umano.
La carnale interiorità di esseri umani che non sono lì per raccontare e farsi protagonisti ma per concedersi all’ incontro profondo con chi li guarda.
Tutto sta nella magia di quell’ incontro. Incontro non finalizzato a dire o ad indicare ma fine a sé stesso, preziosamente intimo e per questo anche in grado di andare ben oltre quell’immagine.
La possibilità di rispecchiarsi è ciò che conferisce a chi guarda un’ulteriore possibilità di incontro, questa volta con sé stessi:
«Quando guardi bene qualcuno negli occhi, sei costretto a vedere te stesso.»
Tahar Ben Jelloun
Come è nato il suo talento artistico?
La mia relazione con la fotografia è iniziata quando avevo 14 anni nel paesino dove sono cresciuto in Sicilia, a Caltagirone.
La fotografia non mi interessava più di tanto, cercavo un lavoretto estivo e lavorare con un fotografo di matrimoni mi sembrò un’ottima opportunità.
Nel 2006 l’incontro con Lorenzo Castore ha segnato una svolta nella mia vita, grazie a lui ho scoperto un tipo di fotografia diversa dall’ordinario, più personale e libera.
Da qui inizia il mio vero interesse per la fotografia e l’arte. Utilizzare la fotografia come mezzo di espressione, di ricerca e di crescita fu la scusa e il pretesto per uscire dalla mia isola e vivere una vita che non avevo immaginato prima.
Quali sono stati i fotografi che l’hanno ispirata di più nel suo percorso?
Nella mia formazione sono stati fondamentali fotografi come Lorenzo Castore e Michael Ackerman che sono stati i precursori del mio percorso fotografico. Della loro fotografia mi ha colpito principalmente la libertà che mi comunica e che si sente fortemente nelle loro immagini. Non per questo non mi sono sentito attratto da altri tipi di fotografia, più classici e che hanno fatto la storia del racconto per immagini come Robert Capa, Anders Petersen o Stanley Green. Ultimamente ho avuto l’occasione di lavorare con un fotografo che mi ha molto aiutato nel mio percorso, un maestro della luce: Paolo Verzone. Ovviamente non mi lascio ispirare solo da fotografi ma dalle arti visive in generale, i dipinti di Caravaggio e Francis Bacon come anche la scultura di Giacometti sono basi fondamentali per capire la potenza delle immagini nel mondo dell’arte.
I ritratti sono la forma espressiva che preferisce?
Mi piace molto lavorare con il ritratto. Fare un ritratto non è semplicemente la foto di un volto è l’incontro, la condivisione, una relazione che avviene tra due o più persone, è la possibilità di entrare nella vita di qualcuno condividendo la tua esperienza con quella del soggetto fotografato. E’ un reale scambio.
Cosa racconta un ritratto per essere riuscito?
Un ritratto, dal mio punto di vista, racconta l’esperienza e il momento di condivisione avvenuto durante il momento della scatto stesso.
Se la fotografia ti porta oltre il volto o la persona in se il ritratto è riuscito.
Credo sia importante arrivare almeno vicino a un ritratto riuscito, non imparare a fare sempre buoni ritratti bensì allenare un modo per riuscire a farne di buoni.
I suoi lavori raccontano spesso di un altrove: geografico, psicologico, temporale. Si tratta di curiosità o è un modo per decentrarsi?
Credo che la fotografia abbia bisogno di una spazio fisico, geografico e mentale fuori dall’ordinario.
La curiosità sicuramente è fondamentale in questo processo, il senso di decentramento anche, come credo che una buona fotografia non sia importante quanto il processo e l’esperienza che c’è dietro di essa.
La sua esperienza sul set per “I tempi felici verranno presto” di Alessandro Comodin ha offerto ispirazioni diverse al suo modo di lavorare?
Ho lavorato a stretto contatto con Alessandro per due anni prima della realizzazione del suo ultimo film “i tempi felici verranno presto”.
Lavorare con un regista e con uno staff mi ha molto colpito perchè a differenza della fotografia il cinema è un lavoro di squadra.
Circondarsi di persone, professionisti e non, credo sia molto importante, è un arricchimento, un nutrimento, questa è la principale ispirazione da quella esperienza.
La società di oggi è in continua trasformazione: la fotografia deve porsi nuovi scopi per essere ancora una forma espressiva interessante?
Questa è una domanda molto difficile, non credo ci sia una risposta univoca.
Dal mio punto di vista, e non soltanto a livello fotografico, credo che la società di oggi si è molto arricchita e velocizzata. E’ una grande possibilità essere collegati con tutto il mondo, la rete e i social sono il nostro presente. La professione del fotografo si sta un pò perdendo ma ed è comprensibile nella nostra evoluzione.
Ma in questa evoluzione ci siamo persi dei pezzi, abbiamo chiuso gli occhi su alcune cose. Spero che la fotografia, come il cinema e le altri visive, possano andare a una velocità completamente opposta dal reale, tornare a essere più artigianali, più poetici, più curati perchè c’è bisogno di questo, io ho bisogno di questo e cerco di farlo nel mio piccolo.
I bambini nella loro esperienza scolastica primaria e secondaria difficilmente sono iniziati o educati alla fotografia: pensa che questo sia un vuoto da colmare in campo formativo?
Questo credo sia un punto molto importante e interessante.
Non mi focalizzerei soltanto alla fotografia, credo che la scuola primaria e secondaria ha un ruolo chiave nella società moderna, in riferimento anche alla domanda precedente.
Sarebbe molto bello, e fondamentale per me, sviluppare la creatività di tutti i bambini, utilizzare le fotografia, il cinema e la pittura.
Sarebbe interessante tornare a sporcarsi le mani, divertirsi e farlo iniziando con i bambini.
Dottore di ricerca in biologia, musicista e compositore, Emiliano Toso è un artista unico nel panorama musicale contemporaneo per il suo talento, la peculiarità del suo percorso formativo e la costante apertura alla ricerca, non solo musicale.
Unire il punto di vista scientifico di biologo alla sensibilità e al talento musicale crea un mix esplosivo di cui è impossibile non restare totalmente affascinati e toccati nel profondo sia nel corpo che nella mente. Gli eventi di cui è protagonista si trasformano in occasioni uniche di scoperta, crescita e condivisione grazie alla sua naturale capacità di risvegliare la dimensione più profondamente umana in chi lo ascolta.
Se qualche anno fa, qualcuno cantava “non insegnate ai bambini, ma se proprio volete, insegnate soltanto la magia della vita” Toso fa proprio questo, poiché ogni suo concerto desta stupore e meraviglia, apre la mente alla gioia di essere parte di questa danza misteriosa che è la vita.
Proporre musica ai bambini è molto importante per la loro formazione e per lo sviluppo di una sensibilità artistica. Il modo per farlo e la scelta dei brani non deve essere improvvisata proprio perché il suo effetto è molto profondo sia dal punto di vista fisico che psicologico e la sensibilità musicale si forma a partire dagli stimoli che l’ambiente offre nei primi anni di vita. La musica può agitare o al contrario risvegliare in noi intense sensazioni di benessere, può assopire o al contrario risvegliare creatività e curiosità.
La musica che ascoltiamo comunemente è composta intorno a un LA accordato a 440 Hz così come indicò, nel 1939, un alto gerarca nazista, il noto Goebbels. Dietro alle ragioni di questa scelta molto si è discusso e il dibattito ancora non è sopito, anzi è più vivo che mai.
Un’altra musica è possibile ed è quella che risuona intorno a un LA accordato a 432Hz.
Ascoltando questo tipo di composizioni si fa un’esperienza musicale molto diversa, estremamente rilassante e armonica. Molta letteratura ormai mette in rilievo gli effetti di benessere e cura di questo tipo di musica.
Emiliano Toso ha deciso di suonare e comporre solo musica accordata a 432 Hz su strumenti acustici.
Ma si sa, in tutte le cose, più che leggere è necessario farne esperienza e questo è vero soprattutto in questo caso perché la musica di Emiliano Toso va ascoltata per sentirne direttamente gli effetti e apprezzarne la delicata e raffinata bellezza adatta a tutti, adulti e bambini.
Tanti gli studi che mettono in luce le caratteristiche della musica accordata a 432 Hz, rilevandone la capacità di indurre profondo benessere e di risvegliare l’autoguarigione o ridurre l’ansia nei più svariati ambiti, ma quello che più conta, aldilà di studi o ricerche, è provare ad ascoltarla per capire che effetti ha.
Non perdetevi visite ripetute al sito di Emiliano Toso dove troverete materiali interessantissimi riguardo alla sua attività, ai progetti di cui leggerete nell’intervista e alla sua musica ma soprattutto dove potrete avere i suoi cd.
Fortunatamente viene spesso in toscana e il prossimo ottobre sarà a Capannori, Lucca, al centro Artè per una conferenza con il Dott. Franco Berrino e a Marzo con la Prof.ssa Daniela Lucangeli, una straordinaria opportunità per conoscere dal vivo due tra le persone più capaci di smuovere cambiamenti positivi nel nostro panorama intellettuale.
Le prossime date in cui l’artista si esibirà sono Roma 6 settembre, Bergamo 13 settembre, Torino 29 settembre.
1 Chiara Gasperini: come sei arrivato a capire le qualità della musica con accordatura a 432Hz?
Emiliano Toso: ho sempre fatto le più grandi scelte della mia vita con il cuore e intuitivamente. Proprio qui dove sono adesso, vicino al pianoforte, in questo caso, è stato un signore toscano, Fabio Bottaini, a suggerirmi di provare a accordare il mio pianoforte a 432Hz.
Tentai subito di convincere l’accordatore della mia zona ma lui non voleva saperne. Il cambio di accordatura, infatti, comporta tre giorni di lavoro, ma dopo avergli inviato un po’ di letteratura sull’argomento, incuriosito, lo accordò. Ho ancora adesso un po’ la pelle d’oca a pensarci.
Mi sedetti qui e sentii che il pianoforte si era come umanizzato, era una sensazione del tutto nuova, mai provata. Decisi in quel momento che non avrei più accordato diversamente il mio pianoforte perché lo sentivo più caldo, più morbido, come fosse tornato a casa, nella mia casa e da quel momento io potevo esprimermi attraverso di lui in modo più coerente.
Dopo si è risvegliata anche la mia parte più scientifica così sono andato a cercare notizie su quel tipo di frequenze. Non esistono pubblicazioni sulle più grandi riviste del mondo che dimostrino che, inequivocabilmente, questa accordatura sia più in linea con le nostra frequenze ma ci sono prove che accordando il LA centrale a 432 Hz, di conseguenza, si accordano in modo diverso tutti gli altri tasti e si creano degli armonici che sono più coerenti con le frequenze della natura e di tutte le nostre cellule come pure della terra che è uno strumento musicale in quanto anch’essa risuona.
Si capisce perciò come mai suonando in quel modo si entra meglio in comunicazione con il nostro cervello e col nostro corpo e con la nostra natura più profonda
2 Chiara Gasperini: secondo i tuoi studi, quanto è importante la musica per il benessere cellulare organico e conseguentemente per quello psicologico?
Emiliano Toso: nel corso dei miei studi non avevo mai incontrato un capitolo del tipo “musica e cellule” o “musica e biologia” così avevo perso l’idea che le mie passioni più grandi potessero essere unite.
Da cinque anni fa in poi, con il mio cambiamento di vita, ho potuto approfondire che ci sono molti studi rigorosi a dimostrazione di come la musica che ascoltiamo influisca sulla biochimica del corpo attraverso il cervello. Al cervello, infatti, arrivano stimoli che cambiano la biochimica del corpo.
Questo implica l’aumento di ormoni come ossitocina e dopamina. Ci sono bellissimi articoli su riviste comeNature, per esempio, su come cambia la biochimica del corpo nel momento in cui ascoltiamo musica con certe caratteristiche.
Aldilà di tutto questo ci sono state due importanti rivoluzioni in ambito biologico: la prima, riguardante l’epigenetica ha mostrato che non siamo più vittime del DNA, quel libretto d’istruzioni donatoci durante il concepimento e che si pensava avrebbe tracciato la nostra vita, inevitabilmente.
Abbiamo capito che ricevendo costantemente stimoli dall’ambiente influiamo sulle nostre cellule ricreando il nostro corpo, giorno dopo giorno, fino alla fine.
La seconda rivoluzione mostra che tutti questi stimoli non sono solo misurabili dal punto di vista chimico ma anche fisico.
Toccando questo punto entriamo nell’ambito della fisica quantistica che mostra che ogni suono ha un effetto anche biologico: è una informazione che provoca cambiamento perché influisce sull’acqua presente nelle cellule (composte all’ottanta per cento di acqua).
Il suono è un segnale misurabile che può cambiare il modo in cui leggiamo il nostro libretto di istruzioni.
Masaru Emoto ci ha regalato la prima suggestione che rese visibile il suono attraverso l’acqua.
Oggi possiamo contare anche su studi ancora più approfonditi nell’università italiana, per esempio quelli del Prof. Carlo Ventura, una persona straordinaria che si emoziona durante le sue presentazioni.
Il Prof. Ventura è riuscito a dimostrare che non solo le cellule rispondono al suono differenziandosi ma lo fanno in modo diverso a seconda dello stimolo sonoro che ricevono così che una cellula embrionale diventa, per esempio, cellula del cuore. Al momento si sta interessando a come le cellule malate come quelle tumorali rispondano a certi suoni tornando a uno stadio indifferenziato. Si tratta di promuovere il nostro intrinseco potenziale di autoguarigione
Il nostro corpo è alla continua ricerca di armonia e equilibrio.
Insomma, in sintesi, si è capito che esiste una tavolozza di colori e segnali che si crea con le nostre emozioni attraverso la nostra percezione di quello che viviamo e degli ambienti in cui siamo inseriti e la nostra parte biologica risponde a questi stimoli continui in un modo molto articolato.
Ma ciò che è più importante è che in tutta questa tavolozza c’è anche l’arte.
Mi resi conto nel mio lavoro di biologo che arte e emozioni, invece, non entravano in laboratorio ma restavano fuori dalla ricerca.
Oggi per fortuna sappiamo che le emozioni sono parte imprescindibile di quella che è la nostra salute e la nostra natura e l’uomo ha un grande bisogno di lavorare proprio su tutto questo anche dal punto di vista formativo. Sto portando avanti queste ricerche anche con l’aiuto della Prof.ssa Daniela Lucangeli.
L’arte anche viene oggi inserita nei protocolli degli ospedali o di altri luoghi di cura e tra le arti la musica sollecita tutte le parti del nostro cervello attraverso ritmo, parole, melodie, ricordo.
Dal punto di vista filogenetico, l’uomo in ogni luogo o era ha sempre prodotto musica, soprattutto nei momenti cruciali e più difficili i della vita, come nascita, morte, bisogno di guarigione.
Questo dimostra che la musica è un ponte verso qualcosa che ancora non possiamo misurare ma sappiamo solo che ne abbiamo bisogno.
C’è sempre stato questo bisogno profondo dell’uomo, la nostra comunità di cellule ha bisogno di quello…è un ponte che piano piano si dissolve perché ci avviciniamo sempre più. Se c’è sempre stato vuol dire che l’uomo ne ha bisogno. Anche le tribù più lontane dalla scienza sanno che serve la musica in tutte le sue dimensioni, come canto, come percussione di tamburi e molto altro.
All’uomo serve arrivare in questa dimensione del suono.
3 Chiara Gasperini: l’universo produce un suono di fondo? Siamo immersi in un suono primordiale? E questo suono cosmico sta cambiando visto che siamo poco rispettosi verso il pianeta?
Emiliano Toso: vorrei risponderti suonando. Il suono primordiale della terra, la risonanza di Schumann è di circa 8 Hz e corrisponde a un DO che non possiamo sentire perché è al di fuori del nostro udito umano ma è un DO che risuona con tutti gli altri DO di un pianoforte o altro strumento accordato con il LA a 432 Hz.
Penso che anche la Terra, in quanto essere vivente, anche lei in continua trasformazione, con tante cellule (noi siamo una parte delle cellule della terra e ci rinnoviamo nascendo e morendo ogni giorno) cerchi di compensare gli stimoli forti che le arrivano e dei quali noi siamo la causa sia dal punto di vista sonoro che biochimico.
Come facciamo noi davanti a una malattia cercando di ricostruire i nostri equilibri biochimici e biofisici così fa la terra in questo momento. Credo che vada aiutata in questa fase e non è detto che del nuovo equilibrio che raggiungerà faranno di nuovo parte le cellule precedenti. C’è chi parla dell’estinzione dei pesci nei prossimi trent’anni ma potrebbero anche sparire le cellule esseri umani.
La nostra percezione è infinitesimale, se ne accorgono per esempio gli astronauti quando … una volta tornati dallo spazio si trovavano in uno stato di overvieweffect, o effetto della veduta d’insieme, raggiunto dopo la visione del pianeta, così piccolo, da lontano.
Si tratta di una consapevolezza nuova, uno stato di benessere, dato dal fatto che vedere la condizione umana da così lontano, fa sentire protetti, avvolti dentro braccia così grandi, parte di un tutto che protegge e unisce. Ma il nostro piccolo punto di vista è infinitesimale e non ci consente di capire tutto ma forse ci limitiamo a un cinque per cento, nell’ambito dell’udito, per esempio, possiamo sentire solo alcune frequenze o se ci volgiamo a osservare il passato, quanto lontano possiamo arrivare?
Poche migliaia di anni, forse. Tutti si sta evolvendo e se guardiamo gli altri pianeti e la profondità del tempo possiamo intuire quanto è grande e profonda questa intelligenza che guida tutto. Lì è tutto a posto, siamo noi, invece, a dover ampliare la nostra prospettiva per capire un pochino di più.
4 Chiara Gasperini: credi che ci siano conseguenze al fatto che i bambini oggi come oggi sono sempre più esposti a ambienti rumorosi dove imperano suoni sgraziati?
Emiliano Toso: non credo ci sia necessità di proteggere i bambini da determinati tipi di suoni perché potrebbe succedere qualcosa.
Io credo che ci sia necessità di un maggior rispetto del valore del suono e della musica e come in tutti gli altri settori, per esempio lettura o cibo, ci sia bisogno di dare valore.
Da tanti punti di vista oggi possiamo fare grandi abbuffate in ogni momento, con internet, col cibo, con la musica, possiamo ascoltare tutto velocemente senza dare valore a quel suono, a quel brano a ciò che stiamo facendo.
C’è bisogno di dare valore al brano o al silenzio degli alberi, in modo che da grande, il bambino possa capire il valore speciale di ogni cosa.
In passato, per avere un disco, si dovevano mettere da parte i soldi a lungo e poi, una volta preso, era quasi un rituale ascoltarlo tutto.
Già nella pancia, quando il bambino ancora non è nato, gli si può insegnare la scelta e il rispetto del valore che viene dato in quel momento a quel nutrimento, suono, esperienza, o altro che sia.
La mia formazione, dal punto di vista filogenetico biologico, mi insegna che spesso bisogna spegnere la mente se è rimasta confinata a certi spaventi, a certe paure, indotte magari da un telegiornale e poi trasmesse ai nostri figli.
Se trasmettiamo paura trasmettiamo separazione, diamo luogo a una reazione biochimica di fuga e chiusura che trasmettiamo ai figli o la propaghiamo intorno a noi. Pensiamo a un’ ape, può spaventare, farci fuggire, ma se invece la osserviamo al microscopio ci rendiamo conto di quanto sia bella.
Allora si crea apertura e unione e il nostro corpo, a livello cellulare respirerà diversamente rigenerando ogni organo in modo diverso e creando benessere in tutto il corpo.
Quante energie si perdono a causa delle nostre prospettive di paura e di divisione propagate a più non posso in questo particolare momento storico. I bambini hanno bisogno, invece, di imparare la bellezza, l’unione, l’apertura.
5 Chiara Gasperini: come dovrebbe essere proposta la musica ai bambini?
Emiliano Toso: i bambini come ogni altra creatura sono musica. Il Prof. Ventura mostra anche la musica che deriva dalle cellule, poiché ogni cellula ha un tipo di suono. La cellula sana o quella malata suonano diversamente. Così ogni creatura ha già un suono e nella vita entra in risonanza con altri suoni. I bambini, già nella pancia della mamma sentono la musica ed è interessante poi vedere, una volta nati, come si relazionano con la musica che sentivano durante la gestazione. Tanti bambini nati in sala parto con la mia musica poi vengono ai miei concerti e si mettono ad ascoltarmi sotto al pianoforte, mentre suono.
Io sono entrato in diverse scuole e l’unico consiglio che posso dare è di non fare laboratori musicali con bambini e adulti insieme, contemporaneamente. Ho sperimentato che è meglio lasciare i bambini da soli, e lasciare loro i colori per rappresentare i suoni traducendoli in disegni. I bambini sono tutti diversi ed è bene riuscire a rispettarne le differenze nei diversi periodi di sviluppo e le caratteristiche specifiche di ciascun bambino: non ci sarà mai una musica adatta a ogni tipo di bambino.
So che il Maestro Giuseppe Vessicchio offre l’ascolto di Mozart per i bambini, sostenendo che la musica di Mozart abbia una struttura cellulare perfetta capace di speciali effetti sia su uomini, bambini o animali. Mozart non aveva studiato tutto ciò in modo mentale ma credo riuscisse a creare così grazie all’intuito che generava una struttura aurea nelle sue composizioni. Io non studio la struttura della mia musica ma è importante che mi esprimo nel linguaggio di 432 Hz. Si tratta del linguaggio del corpo ma soprattutto è importante l’intenzione che metto nel suono. L’intenzione genera una forma, un colore particolare che arriva in modo diverso ai destinatari. Forse un giorno anche l’intenzione verrà misurata.
6 Chiara Gasperini: quali sono i progetti che in questo momento ti appassionano di più?
Si tratta di riunire persone provenienti da tutta l’Italia in residenziali di tre giorni, una, due volte l’anno. Persone che usano la mia musica in ambiti diversi per il loro lavoro, sono maestri yoga, medici, artisti, insegnanti, infermieri, massaggiatori e altro.
Trovo molto bello vedere come tutti siano uniti da questo sottilissimo filo conduttore e si possano condividere modi così stranamente diversi parlando delle nostre esperienze. Vedere, dalla mia prospettiva aerea come si uniscano in un unico grande organismo quando si integrano e si mettono in comune esperienze così diverse. I residenziali sono strutturati in una parte scientifica, una esperienziale e una di condivisione.
L’altro progetto è quello degli spartiti: già condividere la mia musica, una parte molto intima di me, è qualcosa di profondo e importante per me, poi, in molti mi hanno chiesto di avere i miei spartiti. Inizialmente ho detto no. Poi, mesi fa, è capitato che nello stesso periodo me li richiedessero persone diverse da parti del mondo lontane tra loro, come il Canada e la Spagna. È stato allora che mi sono deciso a darli ma in un modo molto particolare. Li darò a mano, un po’ come in un rituale, a chi verrà a prenderli.
Voglio darli a mano e per ora li ho colorati con una simbologia personale, li ho colorati con colori diversi per dare bene l’idea dell’intenzione che accompagna quelle note così da indicarla a chi li suonerà.
In questa intervista cercheremo di conoscere meglio l’artista Graziano Ciacchini.
Le sue attività spaziano in vari ambiti espressivi anche se negli ultimi anni si è dedicato soprattutto alla pittura. Uno stile personalissimo contraddistingue il suo lavoro accompagnando l’osservatore in un viaggio esplorativo attraverso dimensioni oniriche e surreali.
L’artista, toscano, si è fatto conoscere ed ha ottenuto visibilità e consenso anche nel panorama internazionale.
Le tele si aprono su spazi infiniti: un invito a lasciare la certezza di orizzonti conosciuti per viaggiare tra colori e forme dove la meraviglia della scoperta si cela dietro a ogni pennellata. Spazi di serena contemplazione dove il silenzio e la calma predispongono a ritrovare se stessi.
La rarefatta atmosfera che caratterizza le opere di questo artista è in grado sia di infondere calma, serenità e pace ma anche di stimolare contemporaneamente l’osservatore a aprirsi su mondi nuovi dove la strada è appena accennata e tutto è ancora da scoprire.
Narrazioni fiabesche che nascondono la possibilità di molte varianti comprensibili sono dal nostro livello più profondo, oltre la coscienza, oltre l’io, oltre la cultura, da quel linguaggio comune che accomuna tutti gli uomini del mondo, universale, archetipico, fatto di simboli antichi e ancestrali.
Una bellezza che prende forma solo nel dinamismo dell’esplorazione, della sperimentazione e dell’ascolto e mai in una staticità formale data una volta per tutte.
La ricerca artistica rende reale ciò che poteva sembrare irreale perchè ne varca il confine. Le narrazioni sono condotte con uno stile formale preciso, con sapiente uso del colore e della tecnica espressiva.
Il lavoro di questo artista si connota di una forte dimensione emozionale che conduce l’osservatore a riappropriarsi di un sentire sempre più minacciato da una quotidianità rumorosa e inconsapevole.
Scelte cromatiche che identificano uno stile originale dove l’osservatore è invitato a perdersi per poi ritrovarsi come al ritorno di un lungo cammino, mai uguale a come era partito.
L’artista fa parte dell’Associazione Secondo Piano a Sinistra
Quali artisti ti hanno ispirato di più durante la tua formazione?
Il mio percorso di avvicinamento all’arte ed in special modo alla pittura, è stato un raccogliere, dapprima quasi casuale e poi sempre più cosciente, di emozioni attraverso le immagini. Sono stato e sono visitatore di musei, di mostre e lettore di pubblicazioni artistiche, in un crescendo di consapevolezza verso il bello che quel mondo che andavo esplorando sapeva trasmettere. Un percorso di conoscenza personale, se vogliamo, che è successivamente sfociato nel dipingere.
Sono sempre stato attratto da quella pittura che attraverso l’immagine, volesse dire qualcosa, piuttosto che rappresentare qualcosa ed è probabilmente per questo motivo che la pittura ed i pittori che hanno lasciato un segno nella mia sfera emozionale, appartengano a scuole, correnti, fama ed epoche diverse. Quando penso ai singoli artisti, però, l’attenzione si concentra prevalentemente sul secolo scorso.
Il primo a venirmi in mente è sicuramente Edward Hopper che rappresenta il pensiero presente, l’intimità di uno stato d’animo, in delicati fermo immagine mentali, elementi manifestati invece con una espressività ed una drammaticità laceranti da Lorenzo Viani, pittore del mondo degli ultimi. Amo anche Sironi, con le sue periferie silenziose e struggenti, De Chirico e le sue architetture, quinte di pensiero, e poi i volti e le atmosfere di George Tooker, i paesaggi di Carlo Carrà, fino ai Pittori del 900 Toscano, da Ottone Rosai a Baccio Maria Bacci (la solitudine hopperiana di “pomeriggio a Fiesole”) da Guido Ferroni a Ram.
Penso che sia stato il mio, un processo non esattamente consapevole, di interiorizzazione ed elaborazione dell’opera di questi ed altri pittori, processo che nel tempo, mi ha prima spinto verso il dipingere e poi mi ha consentito di far emergere il modo di comunicare che ancora oggi caratterizza i miei lavori.
Nel tuo percorso hai attraversato diverse forme espressive, arrivando alla pittura attraverso la poesia. C’è una continuità in questo passaggio?
Secondo me la continuità è rappresentata dall’istanza di comunicare i temi che a me sono più cari, quelli legati, pur nei limiti personali, alla esplorazione del proprio essere, fino a sbattere nei propri confini, pur sapendo che oltre quei confini, esiste sicuramente un altrove da sperimentare e da viaggiare. Ecco che i versi od i colori, diventano semplicemente espressioni diverse della stesso stato d’animo. Negli ultimi anni la pittura ha comunque preso il sopravvento. Non so bene quale sia la ragione. Forse le parole, pur nella loro vastità di significato, circoscrivono, più delle immagini il concetto e lasciano meno libertà al lettore, rispetto a quella di chi, guardando una immagine, ha la facoltà di scegliere da solo le parole più adatte.
Nelle tue opere gli edifici sono in primo piano e le figure umane sono un dettaglio secondario che appare come insignificante. Puoi dirci qualcosa di più in merito?
L’architettura è una mia passione da tantissimi anni. Amo le architetture rappresentate in pittura, specialmente quando riescono ad evocare qualcosa che vada al di là di una mera articolazione dello spazio, quinta di scene nelle quali i protagonisti siano gli uomini. Nel mio caso le architetture rappresentano qualcosa di vivo e pensante, che osserva, ed è osservato, dalle figure antropomorfe in veste blu e nera. Anche queste ultime potrebbero essere architetture di un concetto, anzi lo sono. Per me rappresentano il pensiero che ha pensato l’immagine, dentro l’immagine stessa, come una gita premio, come un abbonato in prima fila, ed invitano ed accompagnano l’osservatore nell’avventura della scoperta. Ho la pretesa di pensare che i miei lavori siano una piccola finestra aperta verso l’esplorazione del pensiero. Non so se ci riesco, ma è quello il mio intento.
Che rapporto hai con la scelta dei colori?
Un rapporto assolutamente libero, nel bene e nel male. Sono un autodidatta e non ho preparazione specifica sulla teoria dei colori.
Come per la musica si dice andare ad orecchio, io nel dipingere, vado “ad occhio” e sperimento ogni volta, in ogni tela. E’ evidente che l’azzurro la fa da padrone, nei miei lavori e forse il perché è legato semplicemente alla sensazione di serenità, equilibrio ed infinito, alla possibilità dell’oltre che quel colore, più degli altri, mi trasmette.
Da bambino eri già interessato al disegno?
L’approccio alle materie scolastiche, specialmente nel caso dei bambini, rappresenta una delle prime occasioni per ampliare i confini del proprio essere. La conoscenza, la sperimentazione.
Parlo della scuola perché è in quel luogo che vanno i primi ricordi dell’approccio con il disegno. Conservo ancora uno splendido album con tutti i disegni fatti all’asilo all’età di cinque anni. Ricordo che il disegno mi piaceva molto perché pur, a volte, nell’ambito di un tema, le insegnanti lasciavano molto spazio alla libertà e quindi alla ricerca, alla sperimentazione più o meno consapevole. Ci facevano poi usare un sacco di materiali, dalle matite agli acquarelli ai pastelli alla cartapesta fino al riso, per creare basi ruvide, insegnandoci il collage piuttosto che la tridimensionalità del pongo e la contaminazione di materiali e tecniche. Dalle scuole elementari quella libertà è stata bruscamente ridimensionata. O sapevi disegnare che significava riprodurre più fedelmente possibile qualcosa, oppure non era cosa per te e dovevi lasciar perdere. La parte espressiva o creativa, non esisteva più. Di fatto ho lasciato perdere per circa trenta anni convinto che fosse degno solo chi sapeva riprodurre fedelmente un paesaggio o un volto e quando ho cominciato a sentire forte la voglia di mettere i miei pensieri su tela, mi sentivo come un clandestino in un mondo d’altri e mi trovavo a censurarmi da solo.
Come dovrebbe essere secondo te, l’educazione all’arte, a scuola?
In parte ho già risposto in precedenza. In sintesi credo che la scuola dovrebbe lasciare alla libertà di espressione il maggiore spazio possibile, affiancando poi, con intelligenza, all’esperienza di se, accorgimenti e regole. Il risultato, secondo me, farebbe si che ognuno dei due processi di apprendimento non mortificasse l’altro ma che insieme permettessero di esplorare l’intera possibilità espressiva di ogni individuo.
In quali attività artistiche sei impegnato al momento?
In genere i primi mesi dell’anno sono quelli del rinnovamento ed in questo periodo sto elaborando nuove idee per i prossimi lavori e cercando luoghi possibili, per realizzare esposizioni personali.
Hai avuto modo di lavorare e essere riconosciuto anche fuori dai confini nazionali?
Ho esposto a Parigi in due diverse occasioni. In una esposizione collettiva di artisti italiani nel 2017 e in una fiera d’arte, shopping art Paris, nel 2016. Al momento ho alcuni contatti attraverso i quali spero di poter esporre in altri paesi europei. E’ vero anche che oggi per farsi conoscere oltre i confini del proprio paese, il web da grandi possibilità e mi ha permesso di avere visibilità e apprezzamenti da diverse parti del mondo.
Quali sono i tuoi progetti artistici per il futuro?
Lavorare! Ho voglia di proseguire ed ampliare il mio viaggio di scoperta per poi manifestarlo attraverso l’ideazione e la realizzazione di nuovi lavori.
Alessio Doveri, giovane artista emergente, si muove tra varie forme espressive (soprattutto pittura e fotografia).
Intreccia il suo percorso di ricerca artistica con esperienze di vita orientate intenzionalmente alla scoperta di sé e della dimensione più misteriosa dell’esistenza.
Ammesso che nella nostra vita ci sia qualcosa che non è misterioso.
Mi accoglie nel borgo di Lari, in un vecchio lavatoio, adibito a laboratorio ai piedi del castello medioevale del borghetto pisano. Nelle sue parole possono riconoscersi molti artisti emergenti perché raccontano del percorso sempre in fieri verso una propria identità artistica fatta di ricerca costante in sé e fuori di sé.
Quello che si fa è prima di tutto un’esigenza espressiva personale ma c’è bisogno che venga legittimato, riconosciuto dall’esterno perché è quell’immagine di noi che l’altro ci rimanda a arricchire, sfumare, modificare l’idea instabile e perciò libera, della forma di noi stessi. L’uomo è libero perché sempre in rapporto alla possibilità che si configura come scelta.
L’arte è anche soprattutto libertà di creare nuove possibilità oltre il già dato sia per chi la realizza che per chi ne fruisce.
Nelle opere di Alessio le forme e i colori emergono da uno spazio – tempo dilatato, a tratti galattico, in una dimensione non-logica che lascia a chi guarda la possibilità di stare con il non-ancora o riconoscere invece significati che prendono forma dal rapporto tra l’interiorità di chi osserva e l’opera.
Per saperne di più sul lavoro di Alessio Doveri e sulle sue svariate attività vi invito a visitare le sue interessanti pagine: www.alessiodoveri.it
http://www.alessiodoveri.it/
Parlaci della tua pittura, come lavori da un punto di vista “tecnico”
Alessio: la mia pittura prende spunto dalla tecnica chiamata “Dripping”, impiegata da artisti come Ernst e Pollock, che consiste nel far gocciolare la vernice direttamente sulla tela distesa a terra, lasciando un certo margine al caso. Questo è stato solo l’inizio, perché nel tempo ho modificato il risultato avvalendomi di attrezzi utilizzati nell’edilizia (spatole, cazzuola e frattazzo, ecc).
Il mio lavoro è prettamente istintivo. Utilizzo principalmente vernice acrilica su pannelli di polistirene estruso: questo mi permette di incidere il materiale senza che esso si spezzi. Nell’ultimo anno ho aggiunto le garze, per rendere la superficie imperfetta fin da subito.
Nel tempo mi sono spesso ispirato al percorso artistico di Kandinsky e alla sua ricerca delle linee, delle forme e del colore; questi temi si ripetono nella mia arte e nelle mie fotografie.
Puoi dirci qualcosa in particolare sulle tematiche che rappresenti nei tuoi lavori?
Alessio: i miei lavori affrontano l’essenza delle emozioni. Se si va oltre la logica si può iniziare a avvicinarsi al nostro inconscio e da lì entrare in contatto anche con sentimenti che possono infastidirci o sorprenderci in positivo. Le tematiche più significative per me sono il rapporto tra uomo/natura e l’amore tra essi, la speranza di un equilibrio che forse non arriverà mai a causa dell’avidità del potere umano.
Quali sono state le esperienze di vita che ti hanno maggiormente influenzato in questo sviluppo creativo?
Alessio: molti anni fa ho avuto modo di percorrere il Cammino di Santiago. Questo è stato un importante passaggio nella mia vita, dal quale ho imparato molto e lì ho capito che il caso non esiste. Oggi viaggio spesso da solo, aperto ad accogliere e dare, questo mi permette di stabilire degli scambi energetici con sconosciuti che saranno poi fonte d’ispirazione per mia arte.
Quale riscontro ricevi da parte del “pubblico”?
Alessio: ogni volta che faccio un’esposizione personale mi accorgo che è un’esperienza unica e gratificante. Sono affascinato dal rapporto che si crea tra spettatore e opera quando si instaura un contatto, un feeling che va oltre il fermarsi all’estetica del giudizio. Questo per me è un risultato importante, visto che stiamo attraversando un periodo storico particolare dove tutto corre e non abbiamo tempo per soffermarci sull’ascolto. Per questo motivo, spesso chiedo alle persone presenti di disporsi in cerchio e condividere le proprie emozioni.
In questo momento della tua vita cosa vorresti che le tue opere lasciassero a chi le osserva?
Alessio: il mio pensiero è rivolto alla speranza e questo è ciò che desidero trasmettere a chi osserva. Poi sento che l’arte è uno strumento e ognuno è libero di esprimere ciò che meglio crede e sente.
Hai mai pensato di trasferirti all’estero o credi che l’Italia sia un buon posto per crescere professionalmente come artista emergente?
Alessio: sinceramente ho difficoltà a dare una risposta certa, mi sento di dire che in Italia attualmente sono rari gli spazi di confronto e i punti di riferimento per una crescita artistica e culturale. Mi sembra che ci sia poco interesse nel vivere l’arte e più apparenza nel fare arte.
Che progetti hai per il futuro?
Alessio: il linguaggio espressivo di ogni artista è in continua evoluzione ed io mi trovo in un momento di passaggio importante nel quale sto analizzando il rapporto artista/spettatore. Credo che sia fondamentale ristabilire un collegamento diretto tra le due figure e il mio progetto consiste proprio in questo. Attraverso la ricerca dell’infanzia, recuperare e stimolare gli adulti ad andare oltre e far mettere loro da parte le sovrastrutture date dal tempo vissuto.
Per ragioni di spazio oggi ci siamo occupati solo della pittura ma tu realizzi anche molto altro…Vuoi parlarcene?
Alessio: voglio raccontarti velocemente il mio viaggio.
La passione per l’arte è sempre stata presente nella mia vita, ma era latente e con difficoltà emergeva. Spesso mi divertito a scarabocchiare e mettere un po’ di colore in qua e là, ma dopo il Cammino di Santiago tutto è diventato vivido e acceso. Questo lo si può vedere, quando iniziai a realizzare le mie prime installazioni in legno e con i manichini. Mi sentii come un cappellaio magico che in continua evoluzione gioca con il proprio talento e sentimenti.
Questo fu solo l’inizio del mio viaggio di ricerca, con il passare degli anni sentii la necessità di sperimentare la creta, il découpage, le tecniche miste su legno, la scrittura creativa, le pitture astratte e per finire alla fotografia astratta e lo still-life.
Potrei dire che tutto questo è servito per conoscermi meglio e capire che gli strumenti acquisiti sono frutto della consapevolezza. Ci tengo a puntualizzare che l’identità di una persona, non è fatta dalla sola estetica ma soprattutto dai suoi contenuti intrinseci.Tutto questo è il mio modesto pensiero umano e artistico… Buona vita! Grazie
Paolo Rizzi, oltre che artista è docente di storia dell’arte e filosofia. Dopo gli studi universitari in comunicazione svolti a Milano e varie esperienze professionali in Italia e all’estero, attualmente è residente in Toscana.
Le sue opere costituiscono una produzione metropolitana e tribale al tempo stesso, o forse tribale proprio perché metropolitana nel senso più autentico del termine. Visioni artistiche che non temono l’incontro con la filosofia e sfuggono dall’autoreferenzialità.
La dimensione internazionale delle esperienze professionali di Rizzi si riflette nel suo lavoro caratterizzandolo con un stile comunicativo e personalissimo.
Tra colori vivaci e forme dai tratti marcati il lavoro di Rizzi accompagna chi osserva in una dimensione fantastica popolata da robot, supereroi, astronauti, figure cangianti, tigri ipnotiche. Primi piani e città dove il colore carico ne narra le storie. Pittura di figure che a tratti si fanno specchio di chi guarda, per poi prendere forza nelle antiche tribù delle origini e nel corpo animale, ora della tigre, ora del cavallo, prima di smarrirsi di nuovo in un frigorifero allegramente colmo di cibi industriali. In alcuni frigoriferi dipinti da Rizzi troviamo anche libri, dadi e soprattutto tempo sottoforma di sveglia e altri oggetti, ognuno con un messaggio per chi guarda in una società che tutto consuma e divora, tutto vende e tutto compra. Modi di consumare fagocitando: un frigo dove purtroppo sono presenti anche animali, visti solo come cibo, senza la coscienza della differenza che sussiste tra una cosa e un animale. Un invito a riflettere, a prendere consapevolezza di ciò di cui ci nutriamo, a tutti i livelli: fisico, mentale, emozionale. Questo per orientare a un maggiore rispetto verso tutte le forme di vita animali che sono con noi in questo viaggio terreno.
I colori sono saturi e decisi, stesi seguendo a volte linee contrastanti e sovrapposte, altre volte con meticolosa coerenza, così come le forme geometriche tracciate con linee marcate a volte imprecise, graffiate. Le composizioni assumono un carattere vigorosamente primitivo che offre a chi guarda la certezza di una energia e di una forza che prende forma, provvisoria, accennata, ma sempre decisa e priva di ambiguità.
Visioni corroboranti di personaggi fantastici che sembrano provenire dai cartoons o da qualche giornale di fumetti dimenticato. Raccontano silenziosamente storie di viaggi e di esistenze intergalattiche o oniricamente quotidiane. Altri sé, visioni di una identità umana che si ritrova perdendosi nella molteplicità di una ricerca tra il serio e il faceto tra il reale e l’irreale, tra il tangibilmente materiale e il fantasticamente onirico. Le opere di Paolo Rizzi sembrano ritrarre una identità umana alla ricerca di sé stessa. La contemporaneità è crisi delle certezze. Se il novecento era stato definito da alcuni come secolo della crisi dell’io, oggi questa stessa crisi ha dilagato e dall’io si è riversata sul mondo come un’ eco nietzschiano inconsapevole che continua a propagarsi. Un cammino che appare senza appigli se l’io e le certezze ultime sono dissolte. Tuttavia, un cammino non tracciato è anche per questo un cammino dove infinite vie sono possibili, così le opere di Rizzi sono accomunate dalla tendenza alla ricerca e alla sperimentazione.
Chiara: ho letto che dipingi da quando avevi vent’anni: come è cambiato, nel tempo, il tuo modo di lavorare?
Paolo: essendo autodidatta ho dovuto dipingere molto e guardare moltissimo prima di trovare un mio modo di lavorare. E sostanzialmente negli anni è cambiato quanto tempo impiego a realizzare un quadro… ho imparato ad aspettare, a tornare sul lavoro tutte le volte che serve.
Chiara: cosa significa oggi essere un’artista?
Paolo: forse rubare più tempo possibile per me. Sfuggire alle richieste necessarie della società, creare un proprio mondo, una sorta di intercapedine fra il collettivo e il personale, fra il senso e il non-senso.
Chiara: cosa apprezzi di più in un’opera d’arte? (il soggetto, la tecnica, lo stile, il messaggio, altro…)?
Paolo: poichè non esiste un’unica opera d’arte, un unico modo di fare arte, tutte le cose che hai indicato possono essere apprezzabili. Vero è che se la tecnica, e soprattutto lo stile, non raggiungono una certa forza, l’opera d’arte non esiste. Il risultato rimane relegato in un tentativo, un’idea, niente di più. Ma è altrettanto vero che se il soggetto o il messaggio sono stereotipati alla fine il quadro è noioso…quindi direi che un’opera d’arte è l’insieme di tutte queste cose.
Chiara: tra i grandi musei internazionali che hai visitato dove torneresti più spesso?
Paolo: forse vorrei vedere quelli che non ho ancora visto, ad esempio non ho ancora visto un museo che contenga un certo numero di opere di espressionisti astratti americani degli anni ’50 e ’60 che per me sono fantastici. Comunque tornerei volentieri al Prado, a Madrid.
Chiara: un’opera d’arte è infinita nelle sue interpretazioni perchè cambia chi la guarda. Il processo ermeneutico non è esauribile. Sei d’accordo con questa affermazione?
Paolo: sì, forse ad un certo livello sociale, personale, culturale, ideologico l’opera d’arte non esiste di per sé, ma se penso a Michelangelo, ad esempio…. Le sue opere esistono di per sé. Chiunque le guardi prova stupore, sgomento, attrazione. Non è semplicemente un’induzione sociale. Per tutti gli altri forse ci vuole il pubblico. Ma un’opera d’arte non deve necessariamente stupire, può evocare pensieri, domande, provocare, seminare il dubbio o il panico. Può raccontare, mostrare…Se ossevo la tua domanda, filosoficamente…”Un’opera d’arte è…”allora hai già accettato che l’opera d’arte esista, e se hai già scelto con cosa ti vuoi confrontare allora l’ermeneutica viene dopo, come una specie di alta consolazione, un tentativo di giustificare quel che non è giustificabile. L’arte esiste davvero, di per sé, è una manifestazione misteriosa…
Chiara: ci sono state fonti d’ispirazione, persone, esperienze che credi abbiano maggiormente influito sulla tua produzione artistica?
Paolo: certo, infinite, sempre in divenire, attuali, non smetti mai di vedere. Può essere un grande artista o un muro scrostato. Sicuramente l’arte moderna in particolare è al centro della mia formazione e anche se molto diversi da me gli espressionisti astratti americani da De Kooning a Rothko a Louis Morris, Kleine, Motherwell…mi hanno ispirato moltissimo. Anche se forse il quadro più sconvolgente che ho visto dal vivo è la “Deposizione di Cristo con angelo” di Antonello da Messina.
Chiara: gli studi filosofici e il lavoro di professore di filosofia, come credi possano influire sul tuo modo di essere pittore?
Paolo: difficile dire perchè le due cose sono sempre coesistite per me, comunque direi il senso di ricerca. Un’opera non è il punto di arrivo ma il momento di un viaggio. Il senso dell’arte come il divenire di una scoperta mai conclusa. Sono un artista eracliteo direi, “polemos” padre e madre di ogni cosa…forse la filosofia ha reso accettabili i miei conflitti umani troppo umani.
Chiara: la tua produzione è particolarmente ricca e eterogenea ma vi si intravedono forse anche alcuni temi ricorrenti come, per esempio, la crisi di identità dell’uomo contemporaneo e il suo spaesamento. Un uomo contemporaneo che stenta a riportare una natura tribale, a tratti animale, nei ritmi prosaici della contemporaneità. Trovi che ci siano echi antropologici nei tuoi quadri?
Paolo: antropologia del paleolitico intrecciata a quella metropolitana del presente…sì. Mi interessa sempre più che un lavoro sia sospeso fra il senso del passato e del futuro. Qualcosa di arcaico, della tribù originaria in grado di proiettarsi verso una visione futuribile. Potrei definirmi un archeologo dell’inconscio collettivo…uno psicoarcheologo. Indubbiamente cerco un senso di appartenenza a qualcosa perdutosi in eoni di tempo storico, sociale, ideologico. O più semplicemente cerco la polvere sotto il tappeto.
Luca Doveri è uno scrittore toscano che si è formato fin da giovanissimo nel campo del massaggio e della crescita personale. La scrittura, per questo artista, non è solo evasione dalla realtà ma possibilità di costruzione di nuovi punti di vista sul mondo, trasformazione, sviluppo di nuove libertà di essere e di esistere. I destinatari privilegiati dei suoi racconti sono i bambini ma anche gli adulti potranno attingere dalle sue narrazioni.
Numerose esperienze di vita, lavorare come massaggiatore olistico, viaggi in oriente e periodi di vita all’estero, hanno consentito a Luca Doveri di approfondire la conoscenza dell’animo umano e di dare forma ai personaggi dei suoi libri.
Viaggia e visita nuove terre umano errante e l’anima s’arricchirà di emozioni, colori e poesia fino a che non capirai la vita e la sua magica alchimia. “La piramide dei desideri”
La forza positiva che scaturisce dalla sua narrazione nutre l’ottimismo e la forza del lettore che viene così invitato a trovare nuove soluzioni e a cogliere il meglio che l’esistenza possa offrire.
La lettura apre le finestre che si affacciano sull’anima del lettore. “Teseo e la Vespa parlante”
Chi legge potrà trovare nei libri di Luca Doveri uno spazio dove far crescere ottimismo, pace e armonia. In un modo semplice ma profondo sono i grandi temi dell’esistenza che vengono toccati dalle sue storie.
Ogni paura esiste solo fino a quando la si affronta e la si comprende.
E’ allora che perde tutta l’energia che le si era attribuita e non diventa altro che una piccola goccia d’acqua nel palmo della nostra mano. “La piramide dei desideri”
I personaggi e le storie di Luca Doveri ci invitano a riscoprire il bambino che in noi è ancora in grado di cogliere la magia della vita e la meraviglia di esistere. I libri di Luca Doveri sono ricchi di spunti, sogni e intuizioni, scritti in una forma narrativa accattivante, diretta, agile e piena di emozione.
Il pensare colorato e con gioia è il gesto di maggior riconoscenza che possiamo
avere verso colui che ci ha donato la possibilità di pensare. “La stella della fantasia”
La pagina facebook di questo originale scrittore è ricchissima di contenuti, uno spazio prezioso dove la magia della lettura comincia a diventare un viaggio fuori e dentro se stessi: https://www.facebook.com/l.doveri
Luca: ho iniziato a scrivere nel 2005 quando Lina Talarico, una cara amica che fa la maestra nella scuola primaria cercava libri di favole per bambini da poter leggere in classe. Le sue ricerche quella mattina non andavano a buon fine e io scherzando, le proposi che avrei scritto qualcosa per lei! Fu così che scrissi la prima favola “Mogul la farfalla fantastica”. Lina lesse la favola in classe dicendomi che era piaciuta molto ai bambini, così si può dire che ho iniziato per caso, anche se nulla inizia per caso. I bambini ne fecero disegni e commenti positivi. Ricordo ancora la felicità mia e di Lina nel vedere i bellissimi disegni della farfalla che rappresentavano emozioni e pensieri dei bambini. Incoraggiato anche da Lina ne scrissi un’altra e poi un’altra ancora arrivando a dieci: nacque così il mio primo libro “La stella della fantasia”.
Mi è sempre piaciuto scrivere pensieri e poesie ma la mia passione si è davvero concretizzata in questa prima occasione.
Nello stesso periodo scrissi un altro libro: “La piramide dei desideri” rivisto poi in diverse parti nel 2013, prima di pubblicarlo. Il libro racconta la storia di Iseo, un bambino che con l’aiuto di un pappagallo scala una piramide di erba affrontando prove e indovinelli sul significato della vita. Nel 2015 ho poi scritto un libro per la Fondazione Piaggio. La storia racconta di una vespa volante e parlante che accompagna un bambino in una avventura attraverso i cieli della Terra.
Chiara: una vespa e un bambino…
Luca: la Fondazione Piaggio di Pontedera mi aveva proposto di scrivere una storia per bambini che avesse come protagonista una vespa. Vivevo a Londra, all’inizio non è stato facile, poi dopo un paio di settimane mentre ero a scrivere in uno Starbucks vicino a Wimbledon mi è nata l’idea del libro e il suo titolo: “Teseo e la Vespa parlante”. Il racconto inizia con una scolaresca di bambini che vanno in visita al museo della Vespa di Pontedera e lì un bambino rimane attratto da Mafalda, una vespa celeste che gli parla, invitandolo a salire in sella. Lasciata la scolaresca a terra, i due volano via arrivando in India dove incontrano amici, altre Vespa, animali parlanti e Saggioluce, il buffo guardiano di un magico lago sull’Himalaya che aiuterà i nostri protagonisti a salvare la Terra.
Chiara: nei tuoi libri si vedono bellissime illustrazioni, come si crea per te la collaborazione con l’illustratore?
Luca: prima scrivo la storia, poi insieme a chi disegna e all’editore decido quante illustrazioni fare, cercando i punti più salienti, quei momenti del racconto che ci sembra più giusto abbinare a un’illustrazione. Chi disegna spesso mi aiuta a vedere sotto altri punti di vista la storia, perché tutti siamo colpiti da aspetti diversi del racconto. I primi due libri editi da ArtEvenBook sono stati illustrati a matita da Anna Lisa Gneri, una mia cara amica di Pontedera, una magica persona con un forte amore per i colori e una grandissima pazienza, è anche grazie a lei se sono arrivato alla pubblicazione dei miei primi due libri. Il libro sulla Vespa e il prossimo in uscita ad Ottobre edito da Edigiò sono stati illustrati da Maddalena Carrai in digitale, il primo libro sulla Vespa è stato ideato da me e Maddalena nel 2015 senza incontrarci, io in quel periodo vivevo a Londra e lei a Livorno; Maddalena è quel genere di artista che non ha bisogno di tante parole, appena legge riesce in poco tempo a immaginarsi l’illustrazione più adatta.
Chiara: di cosa parlano i tuoi libri?
Luca: avendo un passato da operatore olistico ed essendo un amante di tutta la psicologia e delle filosofie orientali, quando ho iniziato a scrivere, ho cercato di canalizzare tutti questi insegnamenti ed esperienze nelle mie storie. Pur essendo favole sono portatrici di tutti i miei vissuti. Prima di ogni capitolo inizio sempre con un aforisma psico-filosofico rivolto agli adulti. Il breve incipit riprende il contento del capitolo che seguirà, è uno stile che ho utilizzato in tutti i libri tranne in quello della Vespa. Penso che l’ottanta per cento di ciò che c’è scritto nelle mie favole venga da questo background formativo olistico che, anche se non viene colto subito, arriva nella mente del lettore. Cerco sempre di far affiorare un senso, una morale psico-filosofica da quello che scrivo. Tutte le favole hanno un potenziale in questo senso, così quando scrivo cerco il più possibile di accompagnare l’immaginazione del lettore oltre la semplice lettura d’intrattenimento. Per questo amo definire come “favole psicologiche” quello che scrivo. Ovviamente ci possono essere molti livelli di interpretazione, tanti quanti sono i lettori e questo è anche il bello della lettura. Tuttavia cerco sempre di inserire significati profondi come per esempio nel secondo libro che ho scritto “La Piramide dei desideri”. Il libro parla di un bambino che scala una piramide di erba; da un punto di vista più profondo, l’attraversamento dei sette piani rappresenta il superamento di sette livelli psicologici verso l’evoluzione e la comprensione di noi stessi e del mondo che ci circonda.
Chiara: ti va di lasciarci un messaggio in particolare, qualcosa da dire ai bambini.
Luca: più che dire, direi trasmettere. I bambini sono magici, bisogna avere più calma di vedere questa magia in loro e riuscire così a trasmettergli le modalità per mantenerla viva negli anni. Quando riusciamo a fare questo la parte magica e creativa rimane in loro accompagnandoli verso la libertà di pensiero nella loro vita. La tecnologia ha i suoi vantaggi basta che non sostituisca la sana creatività che realizza ciò che prima è stato nell’immaginazione.Questa estate ho pensato di scrivere proprio un libro che tratti questi cambiamenti tecnologici che ci sono stati negli anni nel mondo dei bambini, se uno di questi giorni mi viene l’intuizione giusta lo inizio a scrivere. Ci penso sempre bene prima di iniziare a scrivere perché nelle parole c’è molta responsabilità, specialmente nella letteratura per l’infanzia. I bambini sono tutti un terreno fertile su cui piantare. Le parole che usiamo per i bambini hanno una grandissima importanza. I genitori e chi lavora con i bambini è giusto che sappiano che le parole sono energia in grado di agire nei pensieri; sia quelle dei libri che si comprano ai figli sia quelle che si dicono a voce hanno tutte una grande potenza sullo sviluppo delle nuove generazioni. Siamo in un periodo storico di grandi cambiamenti sotto tutti i punti di vista, alcuni cambiamenti sono visibili altri meno, tuttavia ognuno nel suo piccolo può fare qualcosa per aiutare la Terra dove siamo nati. Così mi sono chiesto cosa potessi fare per migliorare questo mondo e un giorno ho riflettuto su una frase del Dalai Lama: “Se ad ogni bambino di 8 anni venisse insegnata la meditazione, riusciremmo ad eliminare la violenza nel mondo entro una generazione”
Io in verità conoscevo già la meditazione, l’avevo imparata e sperimentata su di me nel corso degli anni, così ho avuto un’intuizione: unire tutti gli insegnamenti ricevuti con le favole che scrivo. Le favole sono uno straordinario mezzo attraverso il quale i bambini possono chiudere gli occhi iniziando a usare la loro immaginazione e, se guidati da qualcuno, possono anche riuscire a meditare e rilassarsi in un modo davvero sorprendente. Così, nel 2016 ho iniziato a diffondere dei progetti unendo il rilassamento e la meditazione con la lettura di favole nelle scuole dell’infanzia e nelle scuole elementari. Gli incontri sono sempre stati sopra le mie aspettative dato che i bambini sono molto più veloci, spontanei e naturali degli adulti. La cosa più bella è vedere i disegni delle immagini che riescono a vedere durante i momenti di rilassamento a occhi chiusi. In più, in seguito, sono diventato istruttore MISA, un’associazione internazionale che promuove il massaggio tra bambini e le buone relazioni nelle scuole di tutto il mondo. Io, nel ruolo di istruttore, insegno alla maestra i quindici movimenti che costituiscono il protocollo di massaggio. I bambini guardando imparano e poi lo ripetono tra loro senza che nessun adulto tocchi direttamente i bambini. Ho conosciuto di persona la fondatrice Sylvie Hétu e ammetto che ha creato un protocollo davvero geniale per favorire le buone relazioni e una nuova modalità di interagire e comunicare.
Chiara: Luca, ci racconti una curiosità della tua infanzia?
Luca: ti racconterò una cosa originale, Luca da bambino sentiva un forte legame con Bruce Lee, il noto attore praticante di arti marziali, senza sapere tanti perché ho sempre voluto una sua foto in camera mia. Durante la vita ho cercato delle risposte e dopo anni ho capito che Bruce era prima di tutto un grande culture della filosofia e della psicologia; evidentemente da bambino sono rimasto affascinato dal suo modo di unire la profondità delle arti marziali con l’amore per la vita e la filosofia. Negli anni ho anche praticato diverse arti marziali fino a quando ho scoperto il Wing Tsun, senza sapere che è lo stile che Bruce Lee praticò da ragazzo. Rientrato da Londra in toscana pochi mesi fa ho conosciuto Niccolò Taliani, un maestro che insegna Wing Tsun a grandi e piccini. Riconosco in lui, come riconobbi in Bruce Lee, anche un grande amore per la filosofia e la psicologia e chissà, magari in futuro faremo qualcosa insieme per i bambini unendo meditazione, favole e Wing Tsun, potrebbe essere per loro una straordinaria opportunità di crescita a 360 gradi.
Chiara: progetti futuri?
Luca: a Ottobre pubblicherò il mio quarto libro per grandi e piccini “Volami Accanto”, edito da Edigiò. Sarà una magica storia tra un bruco e una formica ambientata in una casa. Un racconto di un’amicizia impossibile che attraverso una serie di colpi di scena ci dimostrerà i valori e la potenza dell’amicizia. Attualmente sto lavorando anche ad altri tre libri: – Una storia che parla di un bambino, di una coccinella e dei sette segreti della fortuna. Sarà un testo per grandi e piccini completamente innovativo contenente una favola abbinata a dei giochi psicologici.
– Un libro scritto a quattro mani con Vanessa Salmoiraghi, una cara amica di Milano. Sarà un testo di favole guidate abbinate a un dvd, un’avventura sciamanica fra un bambino e un’aquila, contenente rilassamenti da leggere o ascoltare ad occhi chiusi.
– Un libro che attraverso una favola spiega ai bambini l’importanza del presente, contrapposto ad un lontano passato e a un lontano futuro.
Una bella notizia del 2017:
Il libro “La Stella della Fantasia” è arrivato grazie a un angelo chiamato Michela in Africa nel villaggio di Ve Deme, Ghana, come regalo a un gruppo di bambini che stanno aspettando la costruzione di una scuola. Per leggere l’articolo: http://www.michiwipi.com/2017/08/15/la-stella-della-fantasia/
Stefano Tommasi è un fotografo che vive a pieno la fotografia come arte narrativa e interpretativa al tempo stesso.
Nel suo lavoro prendono forma sogni e visioni o forse una realtà nuova, dove a essere portata alla luce è la poesia.
Così le immagini, a volte sfiorate dalle parole, incantano lo spettatore. Perdersi a guardare le sue fotografie è un’esperienza intensa, interiore e sensoriale insieme. Il processo creativo costruisce il concetto che prende forma nello scatto.
“There are Things Here Not Seen in This Photograph”: scrisse Duane Michals sopra ad una sua nota fotografia e queste parole potrebbero essere scritte anche sulle foto di Stefano Tommasi.
La fotografia non è più, in questo caso, il frutto di un’istante rubato ma rappresenta il risultato di un progetto che affonda le sue radici nella storia stessa dell’artista e nella sua visione del mondo.
Nelle opere di Stefano Tommasi gli sfondi, anche quando sono spazi chiusi, sembrano aprirsi diventando prospettive da percorrere, inviti a uscirne per ritrovarsi in uno spazio che non è più racchiuso ma aperto, come il messaggio offerto. Persone, cose o elementi naturali sono tutti caratterizzati da uguale forza narrativa e intensità espressiva in quanto svelati nella loro dimensione surreale.
Stefano Tommasi ha una formazione originale e poco convenzionale dettata dal talento e dalla passione che lo ha portato a ricevere premi in Italia e all’estero e a occuparsi di varie forme d’arte come la danza e il teatro. Oltre ai prestigiosi riconoscimenti ricevuti, l’artista è impegnato in mostre e esposizioni in Italia e all’estero.
C: quello che fai inquadra letteralmente la realtà da un punto di vista poetico. Sei sempre stato in grado di farlo, fin da bambino?
S: la mia, è stata un’infanzia che definirei intima e libera: non ho frequentato l’asilo, non mi piaceva stare assieme ad altri bambini. Non amavo la condivisione, nemmeno dopo, alle scuole elementari.
Giocavo da solo e sognavo, in giro per il mio piccolo borgo e nei boschi rassicuranti e pieni di magia.
I miei mi lasciavano fare. Ero felice e quieto. Crescendo, la poesia si è un po’ assopita per molti anni, fin quando è, inaspettatamente, riapparsa; come un sogno che torna alla mente.
E tutt’ora mi accompagna.
C: ricordi il tuo primo incontro con una macchina fotografica?
S: mio padre ha sempre avuto un’indole artistica: è stato per molti anni musicista e parallelamente ha coltivato la passione per la fotografia.
I nostri anni (miei e di mia sorella, di 2 anni più grande), sono stati dolcemente raccontati dalla macchina fotografica di papà. Ho sempre visto e toccato macchine fotografiche da che mi ricordi. Nonostante ciò, non avevo ancora passione per la fotografia e quindi, per rispondere correttamente alla tua domanda, ti dico che il primo incontro con la macchina fotografica l’ho avuto con me stesso, quando ho capito di averne bisogno per esprimermi senza dover parlare.
C: offrire corsi di fotografia agli studenti già a scuola potrebbe essere un modo di arricchire la formazione?
S: non saprei. Personalmente, ritengo piuttosto inutili i corsi fotografici. Sia a scuola che in genere.
So di essere impopolare nel dire questo. Io stesso ne tenevo nel recente passato, probabilmente senza nemmeno averne la piena consapevolezza. Credo che la fotografia contemporanea non abbia molto da insegnare. Parlo a livello tecnico. I migliori fotografi che conosco, non sanno molto di fotografia. Non sono traviati, usano il mezzo per esprimere le proprie emozioni, la propria visione del mondo esteriore e, talvolta, interiore. Offrirei corsi di educazione al bello.
C: le tue foto raccontano storie che non si esauriscono nel momento che la foto ritrae, invitano a immaginare un prima e un dopo. Ricerchi sempre questa dimensione?
S: la mia fotografia ha un approccio fondamentalmente emotivo/istintivo.
Sono spesso immagini “sospese”, in bilico tra prima e poi.
So che può sembrare un concetto piuttosto mistico, ma è così che nascono le idee: mi bussano alla porta ed io non devo far altro che farle entrare, e ritrarle. Amo quando accade che, anche solo ad una singola persona, una mia fotografia ha stimolato una curiosità, un’ emozione, un ricordo. Qualcosa che è anche un po’ suo.
C: una foto è una lettura della realtà: non è un fatto ma un’interpretazione. Cosa ne pensi?
S: penso che tutto sia interpretativo, la vita stessa lo è.
C: Lucca e la Garfagnana sono per te fonte d’ispirazione?
S: la Garfagnana senz’altro.Ho bisogno di solitudine per creare i miei lavori. Scenari onirici naturali. In questo, la Garfagnana è un paradiso. Non ho mai vissuto molto a lungo in luoghi opposti. Forse troverei altre ispirazioni, forse no.
C: come definisci la fotografia concettuale?
S: concettualmente indefinibile.
C: esiste un fotografo al quale ti ispiri di più?
S: esiste un fotografo meraviglioso che ho conosciuto soltanto 2 anni fa, ed è Duane Michals. Una cara amica mi disse che le mie fotografie le ricordavano quel fotografo, così l’ho cercato: sono rimasto a bocca aperta dalla forza emotiva delle sue opere ed anche alla vicinanza con il mio sentire. Posso dire che io sia stato ispirato da Duane Michals prima ancora di conoscerlo.
C: come è nata l’idea dei tuoi autoritratti?
S: dalla necessità e desiderio di esprimere la mia visione del mondo, sia onirico che reale. Che poi, è la stessa cosa.
C: foto e parole sono spesso insieme nei tuoi lavori: esigenza o gioco creativo?
S: talvolta, le immagini non sono sufficienti per esprimere un concetto. Hanno bisogno di una “spinta”, di una colonna sonora sussurrata. Direi che sia un’ esigenza ma anche desiderio di sperimentare. A volte le immagini parlano da sole, a volte le parole creano fotografie, altre volte si incontrano, al centro.
Un uomo e una donna che si abbracciano rappresentano un centro del mondo.
Un centro da cui tutto ha inizio per esplodere in forme e colori.
Amore in una naturale purezza di abbracci che si offrono a chi guarda come “una farfalla al mezzogiorno”.
Le coppie di Dariush, gli animali, come cavalli e gatti, prendono forma dall’infinita molteplicità e paiono sul punto di fondersi di nuovo, un attimo dopo, nel vortice eterno del tempo: quell’abbraccio o quella posa, li avrà cambiati fino alla loro profondità, per sempre.
Come si può amare l’altro? Solo una sua parte è concessa: conoscenza e comprensione, come siamo soliti intenderle, sono parziali:
ho amato un quarto di una donna
scrive Dariush, in uno dei suoi libri.
Un pensiero capace di ricordare, tra gli altri, Pessoa, che ne Il libro dell’Inquietudine scrive:
due persone dicono reciprocamente “ti amo” o lo pensano, e ciascuno vuol dire una cosa diversa, una vita diversa, perfino forse un colore diverso o un aroma diverso, nella somma astratta di impressioni che costituisce l’attività dell’anima.
L’incontro vero …quando è possibile?
Resta desiderio illusorio o è per noi possibile viverlo tra gli istanti che susseguendosi spiegano la nostra vita?
C’è il rischio di diventare pezzi in un puzzle dal disegno già stabilito.
La nostra libertà creativa può esprimersi davvero costruendo, come si fa con il gioco delle costruzioni, qualcosa che noi abbiamo pensato e progettato, autonomamente.
Così è necessario agire, afferma Dariush: “LEGO” e non puzzle, mattoncini componibili con cui dare forma e significati.
Quello di Dariush è uno stile che affonda le sue radici nella cultura mitologica e artistica persiane.
Dariush è un pittore nato a Teheran e vissuto in Francia e Italia, dalla formazione artistico-culturale complessa e ricca. Le sue opere aprono a tempi e spazi lontani. Come porte aperte su un’altra dimensione dell’esistere i suoi lavori ricordano che la realtà che ci circonda non è schiacciata nel presente e in quello che crediamo di vedervi. Vi si schiudono visioni e prospettive nuove, inedite e sorprendenti.
La dimensione che abitiamo ha radici nel tempo ed è portatrice di differenti significati.
Sorrisi luminosi irradiano un gioioso senso di libertà.
I lavori di questo artista, che ha raccolto innumerevoli e prestigiosi riconoscimenti in Italia e all’estero, si trovano in varie nazioni ma anche a Lucca, alla Galleria L’Arte, curata da Pierluigi Puccetti. Le opere riportate in questa pagina sono tutte litografie realizzate da Angeli e si trovano alla Galleria l’Arte.
Chiara: Teheran, tutto comincia a Teheran, in un luogo che fino al 1979 si poteva chiamare Persia.
Dariush: io sono un persiano di Iran. l’ Iran è un luogo pieno di differenze che vivono insieme da migliaia di anni in un modo che non si ritrova in nessun altra parte del mondo. In Persia ci sono settantadue diverse appartenenze etnico-religiose: azeri di Iran, baluchi di Iran, kurdi di Iran, urdi di Iran, gilaki di Iran, ebrei di Iran, armeni di Iran, zarathustriani di Iran, africani fuggiti dalla schiavitù, due ceppi di cinesi rimasti lì dalla via della seta, discendenti di Alessandro Magno, turkmeni di Iran e molti altri.
I Persiani sono sempre stati molto noti per il loro senso dell’ospitalità, non è facile pagare un persiano perché vorrà sempre ospitarti gratis. In Persia, tutto ciò, si chiama proprio “l’arte di vivere insieme” una particolare abilità nel tenere insieme, in pace e collaborazione reciproca, appartenenze etniche e religiose molto diverse tra loro.
Chi arriva da fuori, una volta in Persia, riesce a farla propria.
Chiara: come era la scuola a Teheran quando eri piccolo?
Dariush: le differenze con la scuola di oggi sono innumerevoli. Stiamo parlando di ben cinquanta anni fa e ci sarebbero molte cose da dire. A scuola si faceva molto artigianato, in particolar modo vicino alle feste o alle ricorrenze. Io ero considerato il migliore in questo genere di attività e venivo premiato. A Pasqua, una volta ho vinto in premio sedici uova. Con i miei amici ne mangiai così tante che dovetti andare dal dottore! Spesso a scuola dovevamo creare oggetti, come gli aquiloni o tante altre cose che poi facevo anche per gli amici. A scuola c’era molto artigianato, coloravamo tutto, anche scatole di fiammiferi. A Teheran tutti i bambini andavano a scuola, fuori dalla capitale meno. Nella generazione dei miei genitori c’erano molti intellettuali e poco analfabetismo, mio padre ha studiato come generale in Francia, per esempio.
Chiara: cosa la ha spinta a cominciare a dipingere?
Dariush: avevo bisogno di guadagnare, mi dedicavo all’arte decorativa e al disegno industriale in Persia, guadagnavo ventidue volte lo stipendio di un operaio ma ho lasciato perché sentivo di avere bisogno di fare qualcosa che mi appassionava di più. Sono venuto a Firenze e mi sono iscritto a architettura, ma facevo anche belle arti e scultura, con Berti e Farulli. Farulli mi fu indicato da un mio professore persiano che aveva studiato a Roma. In quegli anni ero molto attivo nel sindacato degli studenti, occupandomi delle rappresentazioni teatrali. Ho utilizzato molte volte le storie di Behrangi o di Brecht per fare teatro negli anni ’70. Costruivo maschere e marionette, lavoravo in uno spettacolo ispirato alla breve storia dello scrittore iraniano Samad Behrangi, The Little Black Fish. Dario Fo, vedendo che ero un buon artigiano mi chiese di lavorare con lui. Io non parlavo bene italiano ma a lui piaceva molto ciò che realizzavo. I temi dello spettacolo erano la ribellione all’ingiustizia e alla prepotenza, si trattava del capodanno 1976. Avevo realizzato un Unicorno. Ho portato in giro questo spettacolo quando avevo venticinque anni, da Napoli a Sanremo per trenta volte, sempre in piazza. Il linguaggio era molto popolare e provocatorio.
A me non è piaciuto mai restare confinato in un solo campo, ho sempre preferito spaziare tra varie forme artistiche, in molti rami. A Firenze dipingevo opere che vendevo a genitori di iraniani che vivevano lì. Poi a Nizza ho iniziato a lavorare alla galleria Ferrero, dove c’erano degli originali di Chagall. Prima di allora mi dicevano che facevo cose troppo classiche. Ma nel 1979, quando ormai avevo deciso di tornarmene in Persia, Ferrero volle comprare tutti i miei lavori. Da lì lavorai sempre con lui che apprezzò tutto quello che avevo fatto fino a quel momento, anche i disegni sulle mitologie persiane. Fu Ferrero a consigliarmi di andare a Lucca a creare litografie, un’arte che pochi sapevano fare bene. Non conoscevo Lucca e in estate sempre del ’79 ho iniziato a lavorare con Giuliano Angeli, in via della Zecca, nelle litografie. Ho lavorato lì per 35 anni. Poi purtroppo chiuse perché iniziarono a diffondersi tecniche di riproduzione digitali e molto meno artistiche e specializzate. Quando Angeli lavorava, la sua intera famiglia era specializzata e impegnata nel lavoro delle litografie, tanto grande era l’applicazione che richiedeva questa specializzazione. Talvolta occorreva un’intera settimana per realizzare una litografia e il costo era necessariamente alto. Si trattava del tempo e del ritmo ormai perduto delle piccole botteghe artigiane. Come paragonare i cavalli alle Ferrari. Inizialmente io facevo litografie su “Lettere di re”, un antichissimo libro mitologico persiano, tradotto anche in cinese, che raccoglie storie di 5000 anni fa in sette volumi. Io allora facevo lavori su questo libro ma non piacevano molto agli acquirenti e allora lavoravo con l’astrologia, facendo illustrazioni astrologiche oppure decoravo e realizzavo i certificati dei tappeti persiani. I tappeti persiani di grande pregio sono sempre accompagnati da un certificato decorato artisticamente che ne riporta i dati principali.
Chiara: a quel punto si è dedicato sempre alla pittura?
Dariush: avevo voglia di fare qualcosa di diverso; io scrivo persiano, francese e italiano. Così ho iniziato a scrivere libri, tra i quali uno è tradotto in Italiano e si chiama “1,2,3…”. Mi occupo anche di numerologia, a modo mio. Scrivo storie bizzarre.
Chiara: un libro onirico, di visioni, simbolico con illustrazioni pregiate. Leggo la prima riga
I sogni sono passeggeri come il vento
e poi vado avanti…
Amo il tempo
tempo che non capisco
vado avanti e posso cogliere nel libro una visione del tempo che diventa mistero, che fluisce
non uguale
non è neanche simile, paragonabile, adesso
L’amata respira come
come il movimento di una farfalla
sul bordo di una rosa
prima di partire
E poi la vita umana è mistero
quasi corro per risalire sul treno
mi ricordo del tunnel, nero
e bianco.
Ma io non mi rammento più se sto
partendo o tornando.
Chiara: Sepheri, uno dei più grandi pittori e poeti iraniani suggerisce che dovremo piuttosto nuotare nell’incanto della rosa invece di cercare di capirne il segreto.
Dariush: per avvicinarci a questo grande poeta è importante ricordare dove è nato. Nacque e visse a Kashan in una bellissima città al bordo del deserto persiano. Il Dasht-i-Lut è un enorme e arida distesa salata e desertica. Non è come il deserto dell’Arabia Saudita dove dentro ci sono gazzelle e animali di ogni tipo ma più aspro e più estremo. Tuttavia, negli anni 50 hanno fatto un censimento e vi hanno trovato dentro più di mille villaggi che non sapevano nulla di quello che accadeva nel resto dell’Iran, conoscevano solo la mitologia, come le già citate “Lettere dei re” tramandate oralmente. Sepheri fu un artista molto popolare e utilizzò un linguaggio semplice. In alcune delle sue opere ci ricorda di non sporcare l’acqua perché forse un vecchio metterà lì il suo pane per ammorbidirlo oppure una madre potrebbe utilizzarla per dissetare suo figlio.
Chiara: oggi ci fanno credere di vivere in un mondo minacciato dallo scontro tra occidente e oriente.
Dariush: l’uno non può stare senza l’altro. Ho sempre pensato che ci siano due tipi di economia, una di pace e una di guerra.
In seguito alla seconda guerra mondiale l’economia di guerra si è sviluppata sempre di più. La gente, nei più svariati modi, ha dimostrato di non volerla ma non è stata ascoltata.
Chiara: i personaggi delle sue opere guardano il mondo come immersi in un universo fuori dal tempo e hanno lo stupore dei bambini.
Dariush: la mia specialità è la matematica, io prendevo sempre 30 e lode a architettura, senza studiare. La matematica dà certezza, io volevo diventare pittore per guadagnare un po’ e dovevo disegnare in un certo modo per dare forza ai personaggi. Io non ho rappresentato le ombre, non ho dato molto movimento alle opere. Il mio capolavoro è il seno. Il collo è diritto. Queste caratteristiche hanno portato le mie opere un po’ fuori della dimensione carnale. Il naso non lo realizzo se il volto è di fronte e gli occhi sono ben aperti. Purezza. In un certo periodo ho osservato i lavori di altri come Manfredi, o Guttuso, rendendomi conto che i miei nudi sono innocenti e per nulla volgari. Io cerco di disegnare il nudo con una purezza simile a quella, per intenderci, che sono in grado di esprimere gli indigeni dell’Amazzonia nelle foto che li ritraggono, svestiti e naturali.
Anche Modigliani è andato in questa direzione, porta fuori dalla realtà i corpi che rappresenta ed è un mistero come sia arrivato a poterlo fare.
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