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Intervista: PAOLO RIZZI “libertà tribale è un anagramma”

Paolo Rizzi, oltre che artista è docente di storia dell’arte e filosofia.  Dopo gli studi universitari in comunicazione svolti  a Milano e varie esperienze professionali in Italia e all’estero, attualmente è residente in Toscana.

Le sue opere costituiscono una produzione metropolitana e tribale al tempo stesso, o forse tribale proprio perché metropolitana nel senso più autentico del termine. Visioni artistiche che non temono l’incontro con la filosofia e sfuggono dall’autoreferenzialità.

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La dimensione internazionale delle esperienze professionali di Rizzi si riflette nel suo lavoro caratterizzandolo con un stile comunicativo e personalissimo.

Tra colori vivaci e forme dai tratti marcati il lavoro di Rizzi accompagna chi osserva in una dimensione fantastica popolata da robot, supereroi, astronauti, figure cangianti, tigri ipnotiche. Primi piani e città dove il colore carico ne narra le storie. Pittura di figure che a tratti si fanno specchio di chi guarda, per poi prendere forza nelle antiche tribù delle origini e nel corpo animale, ora della tigre, ora del cavallo, prima di smarrirsi di nuovo in un frigorifero allegramente colmo di cibi industriali. In alcuni frigoriferi dipinti da Rizzi troviamo anche libri, dadi e soprattutto tempo sottoforma di sveglia e altri oggetti, ognuno con un messaggio per chi guarda in una società che tutto consuma e divora, tutto vende e tutto compra. Modi di consumare fagocitando: un frigo dove purtroppo sono presenti anche animali, visti solo come cibo, senza la coscienza della differenza che sussiste tra una cosa e un animale. Un invito a riflettere, a prendere consapevolezza di ciò di cui ci nutriamo, a tutti i livelli: fisico, mentale, emozionale. Questo per orientare a un maggiore rispetto verso tutte le forme di vita animali che sono con noi in questo viaggio terreno.

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I colori sono saturi e decisi, stesi seguendo a volte linee contrastanti e sovrapposte, altre volte con meticolosa coerenza, così come le forme geometriche tracciate con linee marcate a volte imprecise, graffiate. Le composizioni assumono un carattere vigorosamente primitivo che offre a chi guarda la certezza di una energia e di una forza che prende forma, provvisoria, accennata, ma sempre decisa e priva di ambiguità.

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Visioni corroboranti di personaggi fantastici che sembrano provenire dai cartoons o da qualche giornale di fumetti dimenticato. Raccontano silenziosamente storie di viaggi e di esistenze intergalattiche o oniricamente quotidiane. Altri sé, visioni di una identità umana che si ritrova perdendosi nella molteplicità di una ricerca tra il serio e il faceto tra il reale e l’irreale, tra il tangibilmente materiale e il fantasticamente onirico. Le opere di Paolo Rizzi sembrano ritrarre una identità umana alla ricerca di sé stessa. La contemporaneità è crisi delle certezze. Se il novecento era stato definito da alcuni come secolo della crisi dell’io, oggi questa stessa crisi ha dilagato e dall’io si è riversata sul mondo come un’ eco nietzschiano inconsapevole che continua a propagarsi. Un cammino che appare senza appigli se l’io e le certezze ultime sono dissolte. Tuttavia, un cammino non tracciato  è  anche per questo un cammino dove  infinite vie sono possibili, così le opere di Rizzi sono accomunate dalla tendenza alla ricerca e alla sperimentazione.

Per saperne di più sull’artista:

www.paolorizzi.com

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Chiara: ho letto che dipingi da quando avevi vent’anni: come è cambiato, nel tempo, il tuo modo di lavorare?

Paolo: essendo autodidatta ho dovuto dipingere molto e guardare moltissimo prima di trovare un mio modo di lavorare. E sostanzialmente negli anni è cambiato quanto tempo impiego a realizzare un quadro… ho imparato ad aspettare, a tornare sul lavoro tutte le volte che serve.

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Chiara: cosa significa oggi essere un’artista?

Paolo: forse rubare più tempo possibile per me. Sfuggire alle richieste necessarie della società, creare un proprio mondo, una sorta di intercapedine fra il collettivo e il personale, fra il senso e il non-senso.

Chiara: cosa apprezzi di più in un’opera d’arte? (il soggetto, la tecnica, lo stile, il messaggio, altro…)?

Paolo: poichè non esiste un’unica opera d’arte, un unico modo di fare arte, tutte le cose che hai indicato possono essere apprezzabili. Vero è che se la tecnica, e soprattutto lo stile, non raggiungono una certa forza, l’opera d’arte non esiste. Il risultato rimane relegato in un tentativo, un’idea, niente di più. Ma è altrettanto vero che se il soggetto o il messaggio sono stereotipati alla fine il quadro è noioso…quindi direi che un’opera d’arte è l’insieme di tutte queste cose.

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Chiara: tra i grandi musei internazionali che hai visitato dove torneresti più spesso?

Paolo: forse vorrei vedere quelli che non ho ancora visto, ad esempio non ho ancora visto un museo che contenga un certo numero di opere di espressionisti astratti americani degli anni ’50 e ’60 che per me sono fantastici. Comunque tornerei volentieri al Prado, a Madrid.

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Chiara: un’opera d’arte è infinita nelle sue interpretazioni perchè cambia chi la guarda. Il processo ermeneutico non è esauribile. Sei d’accordo con questa affermazione?

Paolo: sì, forse ad un certo livello sociale, personale, culturale, ideologico l’opera d’arte non esiste di per sé, ma se penso a Michelangelo, ad esempio…. Le sue opere esistono di per sé. Chiunque le guardi prova stupore, sgomento, attrazione. Non è semplicemente un’induzione sociale. Per tutti gli altri forse ci vuole il pubblico. Ma un’opera d’arte non deve necessariamente stupire, può evocare pensieri, domande, provocare, seminare il dubbio o il panico. Può raccontare, mostrare…Se ossevo la tua domanda, filosoficamente…”Un’opera d’arte è…”allora hai già accettato che l’opera d’arte esista, e se hai già scelto con cosa ti vuoi confrontare allora l’ermeneutica viene dopo, come una specie di alta consolazione, un tentativo di giustificare quel che non è giustificabile. L’arte esiste davvero, di per sé, è una manifestazione misteriosa…

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Chiara: ci sono state fonti d’ispirazione, persone, esperienze che credi abbiano maggiormente influito sulla tua produzione artistica?

Paolo: certo, infinite, sempre in divenire, attuali, non smetti mai di vedere. Può essere un grande artista o un muro scrostato. Sicuramente l’arte moderna in particolare è al centro della mia formazione e anche se molto diversi da me gli espressionisti astratti americani da De Kooning a Rothko a Louis Morris, Kleine, Motherwell…mi hanno ispirato moltissimo. Anche se forse il quadro più sconvolgente che ho visto dal vivo è la “Deposizione di Cristo con angelo” di Antonello da Messina

Chiara: gli studi filosofici e il lavoro di professore di filosofia, come credi possano influire sul tuo modo di essere pittore?

Paolo: difficile dire perchè le due cose sono sempre coesistite per me, comunque direi il senso di ricerca. Un’opera non è il punto di arrivo ma il momento di un viaggio. Il senso dell’arte come il divenire di una scoperta mai conclusa. Sono un artista eracliteo direi, “polemos” padre e madre di ogni cosa…forse la filosofia ha reso accettabili i miei conflitti umani troppo umani.

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Chiara: la tua produzione è particolarmente ricca e eterogenea ma vi si intravedono forse anche alcuni temi ricorrenti come, per esempio, la  crisi di identità dell’uomo contemporaneo e il suo spaesamento. Un uomo contemporaneo che stenta a riportare una natura tribale, a tratti animale, nei ritmi prosaici della contemporaneità. Trovi che ci siano echi antropologici nei tuoi quadri?

Paolo: antropologia del paleolitico intrecciata a quella metropolitana del presente…sì. Mi interessa sempre più che un lavoro sia sospeso fra il senso del passato e del futuro. Qualcosa di arcaico, della tribù originaria in grado di proiettarsi verso una visione futuribile. Potrei definirmi un archeologo dell’inconscio collettivo…uno psicoarcheologo. Indubbiamente cerco un senso di appartenenza a qualcosa perdutosi in eoni di tempo storico, sociale, ideologico. O più semplicemente cerco la polvere sotto il tappeto.

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Intervista: LUCA DOVERI “Crescendo tra favole e meditazione”

 

Luca Doveri è uno scrittore toscano che si è formato fin da giovanissimo nel campo del massaggio e della crescita personale. La scrittura, per questo artista, non è solo evasione dalla realtà ma possibilità di costruzione di nuovi punti di vista sul mondo, trasformazione, sviluppo di nuove libertà di essere e di esistere.                                                                                                   I destinatari privilegiati dei suoi racconti sono i bambini ma anche gli adulti potranno attingere dalle sue narrazioni.

Salone Internazionale del libro di Torino, 18 maggio 2017
Salone Internazionale del libro di Torino, 18 maggio 2017

Numerose esperienze di vita, lavorare come massaggiatore olistico, viaggi in oriente e periodi di vita all’estero,  hanno consentito a Luca Doveri di approfondire la conoscenza dell’animo umano e di dare forma ai personaggi dei suoi libri.

Viaggia e visita nuove terre umano errante e l’anima s’arricchirà di emozioni, colori e poesia fino a che non capirai la vita e la sua magica alchimia.                                                                                                                                                                                “La piramide dei desideri”                               

La forza positiva che scaturisce dalla sua narrazione nutre l’ottimismo e la forza del lettore che viene così invitato a trovare nuove soluzioni e a cogliere il meglio che l’esistenza possa offrire.

La lettura apre le finestre che si affacciano sull’anima del lettore.                                                                                                                                                                              “Teseo e la Vespa parlante”

Chi legge potrà trovare nei libri di Luca Doveri uno spazio dove far crescere ottimismo, pace e armonia. In un modo semplice ma profondo sono i grandi temi dell’esistenza che vengono toccati dalle sue storie.

La Nazione, martedi 16 maggio 2017
La Nazione, martedi 16 maggio 2017

Ogni paura esiste solo fino a quando la si affronta e la si comprende.
E’ allora che perde tutta l’energia che le si era attribuita e non diventa altro che una piccola goccia d’acqua nel palmo della nostra mano
                                “La piramide dei desideri”

I personaggi e le storie di Luca Doveri ci invitano a riscoprire il bambino che in noi è ancora in grado di cogliere la magia della vita e la meraviglia di esistere. I libri di Luca Doveri sono ricchi di spunti, sogni e intuizioni, scritti in una forma narrativa accattivante, diretta, agile e piena di emozione.

Il pensare colorato e con gioia è il gesto di maggior riconoscenza che possiamo 
avere verso colui che ci ha donato la possibilità di pensare.           La stella della fantasia

La pagina facebook di questo originale scrittore è ricchissima di contenuti, uno spazio prezioso dove la magia della lettura comincia a diventare un viaggio fuori e dentro se stessi: https://www.facebook.com/l.doveri

Dove trovare i libri di Luca Doveri: https://www.amazon.it/Luca-Doveri-Libri/s?ie=UTF8&page=1&rh=n%3A411663031%2Ck%3ALuca%20Doveri

Chiara: quando hai scritto il tuo primo libro?

Luca: ho iniziato a scrivere nel 2005 quando Lina Talarico, una cara amica che fa la maestra nella scuola primaria cercava libri di favole per bambini da poter leggere in classe.  Le sue ricerche quella mattina non andavano a buon fine e io scherzando, le proposi che avrei scritto qualcosa per lei! Fu così che scrissi la prima favola “Mogul la farfalla fantastica”. Lina lesse la favola in classe dicendomi che era piaciuta molto ai bambini, così si può dire che ho iniziato per caso, anche se nulla inizia per caso. I bambini ne fecero disegni e commenti positivi. Ricordo ancora la felicità mia e di Lina nel vedere i bellissimi disegni della farfalla che rappresentavano emozioni e pensieri dei bambini. Incoraggiato anche da Lina ne scrissi un’altra e poi un’altra ancora arrivando a dieci: nacque così il mio primo libro “La stella della fantasia”.

Mi è sempre piaciuto scrivere pensieri e poesie ma la mia passione si è davvero concretizzata in questa prima occasione.

Nello stesso periodo scrissi un altro libro: “La piramide dei desideri” rivisto poi in diverse parti nel 2013, prima di pubblicarlo. Il libro racconta la storia di Iseo, un bambino che con l’aiuto di un pappagallo scala una piramide di erba affrontando prove e indovinelli sul significato della vita. Nel 2015 ho poi scritto un libro per la Fondazione Piaggio. La storia racconta di una vespa volante e parlante che accompagna un bambino in una avventura attraverso i cieli della Terra.

"Teseo e la vespa parlante", Fondazione Piaggio, illustrazioni di Maddalena Carrai
“Teseo e la vespa parlante”, Fondazione Piaggio, illustrazioni di Maddalena Carrai

Chiara: una vespa e un bambino…

Luca: la Fondazione Piaggio di Pontedera mi aveva proposto di scrivere una storia per bambini che avesse come protagonista una vespa. Vivevo a Londra, all’inizio non è stato facile, poi dopo un paio di settimane mentre ero a scrivere in uno Starbucks vicino a Wimbledon mi è nata l’idea del libro e il suo titolo: “Teseo e la Vespa parlante”.                               Il racconto inizia con una scolaresca di bambini che vanno in visita al museo della Vespa di Pontedera e lì un bambino rimane attratto da Mafalda, una vespa celeste che gli parla, invitandolo a salire in sella. Lasciata la scolaresca a terra, i due volano via arrivando in India dove incontrano amici, altre Vespa, animali parlanti e Saggioluce, il buffo guardiano di un magico lago sull’Himalaya che aiuterà i nostri protagonisti a salvare la Terra.

Il personaggio Saggioluce, "Teseo e la vespa parlante", illustrazione di Maddalena Carrai
Il personaggio Saggioluce, “Teseo e la vespa parlante”, illustrazione di Maddalena Carrai

Chiara: nei tuoi libri si vedono bellissime illustrazioni, come si crea per te la collaborazione con l’illustratore?

Luca: prima scrivo la storia, poi insieme a chi disegna e all’editore decido quante illustrazioni fare, cercando i punti più salienti, quei momenti del racconto che ci sembra più giusto abbinare a un’illustrazione. Chi disegna spesso mi aiuta a vedere sotto altri punti di vista la storia, perché tutti siamo colpiti da aspetti diversi del racconto.                                            I primi due libri editi da ArtEvenBook sono stati illustrati a matita da Anna Lisa Gneri, una mia cara amica di Pontedera, una magica persona con un forte amore per i colori e una grandissima pazienza, è anche grazie a lei se sono arrivato alla pubblicazione dei miei primi due libri.                                                                                                                                                                      Il libro sulla Vespa e il prossimo in uscita ad Ottobre edito da Edigiò sono stati illustrati da Maddalena Carrai in digitale, il primo libro sulla Vespa è stato ideato da me e Maddalena nel 2015 senza incontrarci, io in quel periodo vivevo a Londra e lei a Livorno; Maddalena è quel genere di artista che non ha bisogno di tante parole, appena legge riesce in poco tempo a immaginarsi l’illustrazione più adatta.

Chiara: di cosa parlano i tuoi libri?

Luca: avendo un passato da operatore olistico ed essendo un amante di tutta la psicologia e delle filosofie orientali, quando ho iniziato a scrivere, ho cercato di canalizzare tutti questi insegnamenti ed esperienze nelle mie storie.                                                                                         Pur essendo favole sono portatrici di tutti i miei vissuti. Prima di ogni capitolo inizio sempre con un aforisma psico-filosofico rivolto agli adulti. Il breve incipit riprende il contento del capitolo che seguirà, è uno stile che ho utilizzato in tutti i libri tranne in quello della Vespa. Penso che l’ottanta per cento di ciò che c’è scritto nelle mie favole venga da questo background formativo olistico che, anche se non viene colto subito, arriva nella mente del lettore. Cerco sempre di far affiorare un senso, una morale psico-filosofica da quello che scrivo. Tutte le favole hanno un potenziale in questo senso, così quando scrivo cerco il più possibile di accompagnare l’immaginazione del lettore oltre la semplice lettura d’intrattenimento. Per questo amo definire come “favole psicologiche” quello che scrivo. Ovviamente ci possono essere molti livelli di interpretazione, tanti quanti sono i lettori e questo è anche il bello della lettura. Tuttavia cerco sempre di inserire significati profondi come per esempio nel secondo libro che ho scritto “La Piramide dei desideri”.                Il libro parla di un bambino che scala una piramide di erba; da un punto di vista più profondo, l’attraversamento dei sette piani rappresenta il superamento di sette livelli psicologici verso l’evoluzione e la comprensione di noi stessi e del mondo che ci circonda.

"La stella della fantasia" e "La piramide dei desideri" al Salone internazionale del libro di Torino, 18 maggio 2017, illustrazioni di Anna Lisa Gneri
“La stella della fantasia” e “La piramide dei desideri” al Salone internazionale del libro di Torino, 18 maggio 2017, illustrazioni di Anna Lisa Gneri

Chiara: ti va di lasciarci un messaggio in particolare, qualcosa da dire ai bambini.

Luca: più che dire, direi trasmettere. I bambini sono magici, bisogna avere più calma di vedere questa magia in loro e riuscire così a trasmettergli le modalità per mantenerla viva negli anni. Quando riusciamo a fare questo la parte magica e creativa rimane in loro accompagnandoli verso la libertà di pensiero nella loro vita.                                                                 La tecnologia ha i suoi vantaggi basta che non sostituisca la sana creatività che realizza ciò che prima è stato nell’immaginazione. Questa estate ho pensato di scrivere proprio un libro che tratti questi cambiamenti tecnologici che ci sono stati negli anni nel mondo dei bambini, se uno di questi giorni mi viene l’intuizione giusta lo inizio a scrivere. Ci penso sempre bene prima di iniziare a scrivere perché nelle parole c’è molta responsabilità, specialmente nella letteratura per l’infanzia. I bambini sono tutti un terreno fertile su cui piantare. Le parole che usiamo per i bambini hanno una grandissima importanza.                    I genitori e chi lavora con i bambini è giusto che sappiano che le parole sono energia in grado di agire nei pensieri; sia quelle dei libri che si comprano ai figli sia quelle che si dicono a voce hanno tutte una grande potenza sullo sviluppo delle nuove generazioni. Siamo in un periodo storico di grandi cambiamenti sotto tutti i punti di vista, alcuni cambiamenti sono visibili altri meno, tuttavia ognuno nel suo piccolo può fare qualcosa per aiutare la Terra dove siamo nati. Così mi sono chiesto cosa potessi fare per migliorare questo mondo e un giorno ho riflettuto su una frase del Dalai Lama:                                                                                                                                                                                                                                               “Se ad ogni bambino di 8 anni venisse insegnata la meditazione,                                             riusciremmo ad eliminare la violenza nel mondo entro una generazione”

Io in verità conoscevo già la meditazione, l’avevo imparata e sperimentata su di me nel corso degli anni, così ho avuto un’intuizione: unire tutti gli insegnamenti ricevuti con le favole che scrivo. Le favole sono uno straordinario mezzo attraverso il quale i bambini possono chiudere gli occhi iniziando a usare la loro immaginazione e, se guidati da qualcuno, possono anche riuscire a meditare e rilassarsi in un modo davvero sorprendente. Così, nel 2016 ho iniziato a diffondere dei progetti unendo il rilassamento e la meditazione con la lettura di favole nelle scuole dell’infanzia e nelle scuole elementari. Gli incontri sono sempre stati sopra le mie aspettative dato che i bambini sono molto più veloci, spontanei e naturali degli adulti. La cosa più bella è vedere i disegni delle immagini che riescono a vedere durante i momenti di rilassamento a occhi chiusi. In più, in seguito, sono diventato istruttore MISA, un’associazione internazionale che promuove il massaggio tra bambini e le buone relazioni nelle scuole di tutto il mondo. Io, nel ruolo di istruttore, insegno alla maestra i quindici movimenti che costituiscono il protocollo di massaggio. I bambini guardando imparano e poi lo ripetono tra loro senza che nessun adulto tocchi direttamente i bambini. Ho conosciuto di persona la fondatrice Sylvie Hétu e ammetto che ha creato un protocollo davvero geniale per favorire le buone relazioni e una nuova modalità di interagire e comunicare.

Chiara: Luca, ci racconti una curiosità della tua infanzia?

Luca: ti racconterò una cosa originale, Luca da bambino sentiva un forte legame con Bruce Lee, il noto attore praticante di arti marziali, senza sapere tanti perché ho sempre voluto una sua foto in camera mia. Durante la vita ho cercato delle risposte e dopo anni ho capito che Bruce era prima di tutto un grande culture della filosofia e della psicologia; evidentemente da bambino sono rimasto affascinato dal suo modo di unire la profondità delle arti marziali con l’amore per la vita e la filosofia. Negli anni ho anche praticato diverse arti marziali fino a quando ho scoperto il Wing Tsun, senza sapere che è lo stile che Bruce Lee praticò da ragazzo. Rientrato da Londra in toscana pochi mesi fa ho conosciuto Niccolò Taliani, un maestro che insegna Wing Tsun a grandi e piccini. Riconosco in lui, come riconobbi in Bruce Lee, anche un grande amore per la filosofia e la psicologia e chissà, magari in futuro faremo qualcosa insieme per i bambini unendo meditazione, favole e Wing Tsun, potrebbe essere per loro una straordinaria opportunità di crescita a 360 gradi.

Chiara: progetti futuri?

Luca: a Ottobre pubblicherò il mio quarto libro per grandi e piccini “Volami Accanto”, edito da Edigiò. Sarà una magica storia tra un bruco e una formica ambientata in una casa. Un racconto di un’amicizia impossibile che attraverso una serie di colpi di scena ci dimostrerà i valori e la potenza dell’amicizia.                                                                     Attualmente sto lavorando anche ad altri tre libri:                                                                               – Una storia che parla di un bambino, di una coccinella e dei sette segreti della fortuna. Sarà un testo per grandi e piccini completamente innovativo contenente una favola abbinata a dei giochi psicologici.

– Un libro scritto a quattro mani con Vanessa Salmoiraghi, una cara amica di Milano. Sarà un testo di favole guidate abbinate a un dvd, un’avventura sciamanica fra un bambino e un’aquila, contenente rilassamenti da leggere o ascoltare ad occhi chiusi.

– Un libro che attraverso una favola spiega ai bambini l’importanza del presente, contrapposto ad un lontano passato e a un lontano futuro.

La Nazione, mercoledi 22 febbraio 2017
La Nazione, mercoledi 22 febbraio 2017

Una bella notizia del 2017:

Il libro “La Stella della Fantasia” è arrivato grazie a un angelo chiamato Michela in Africa nel villaggio di Ve Deme, Ghana, come regalo a un gruppo di bambini che stanno aspettando la costruzione di una scuola.                                                                                                                                Per leggere l’articolo: http://www.michiwipi.com/2017/08/15/la-stella-della-fantasia/

 

Luca Doveri e due delle sue opere
Luca Doveri e due delle sue opere

 

 

 

 

 

 

 

 

Intervista: STEFANO TOMMASI “El universo se crea en el ojo del que mira”

Stefano Tommasi è un fotografo che vive a pieno la fotografia come arte narrativa e interpretativa al tempo stesso.

Nel suo lavoro prendono forma sogni e visioni o forse una realtà nuova, dove a essere portata alla luce è la poesia.

Così le immagini, a volte sfiorate dalle parole, incantano lo spettatore. Perdersi a guardare le sue fotografie è un’esperienza intensa, interiore e sensoriale insieme. Il processo creativo costruisce il concetto che prende forma nello scatto.

“There are Things Here Not Seen in This Photograph”: scrisse Duane Michals sopra ad una sua nota fotografia e queste parole potrebbero essere scritte anche sulle foto di Stefano Tommasi.

La fotografia non è più, in questo caso, il frutto di un’istante rubato ma rappresenta il risultato di un progetto che affonda le sue radici nella storia stessa dell’artista e nella sua visione del mondo.

Nelle opere di Stefano Tommasi gli sfondi, anche quando sono spazi chiusi, sembrano aprirsi diventando prospettive da percorrere, inviti a uscirne per ritrovarsi in uno spazio che non è più racchiuso ma aperto, come il messaggio offerto. Persone, cose o elementi naturali sono tutti caratterizzati da uguale forza narrativa e intensità espressiva in quanto svelati nella loro dimensione surreale.

Stefano Tommasi ha una formazione originale e poco convenzionale dettata dal talento e dalla passione che lo ha portato a ricevere premi in Italia e all’estero e a occuparsi di varie forme d’arte come la danza e il teatro. Oltre ai prestigiosi riconoscimenti ricevuti, l’artista è impegnato in mostre e esposizioni in Italia e all’estero.

https://stefanotommasi.com/

C: quello che fai inquadra letteralmente la realtà da un punto di vista poetico. Sei sempre stato in grado di farlo, fin da bambino?

S: la mia, è stata un’infanzia che definirei intima e libera: non ho frequentato l’asilo, non mi piaceva stare assieme ad altri bambini. Non amavo la condivisione, nemmeno dopo, alle scuole elementari.

Giocavo da solo e sognavo, in giro per il mio piccolo borgo e nei boschi rassicuranti e pieni di magia.

I miei mi lasciavano fare. Ero felice e quieto. Crescendo, la poesia si è un po’ assopita per molti anni, fin quando è, inaspettatamente, riapparsa; come un sogno che torna alla mente.

E tutt’ora mi accompagna.

Io e Me
Io e Me

C: ricordi il tuo primo incontro con una macchina fotografica?

S: mio padre ha sempre avuto un’indole artistica: è stato per molti anni musicista e parallelamente ha coltivato la passione per la fotografia.

I nostri anni (miei e di mia sorella, di 2 anni più grande), sono stati dolcemente raccontati dalla macchina fotografica di papà. Ho sempre visto e toccato macchine fotografiche da che mi ricordi. Nonostante ciò, non avevo ancora passione per la fotografia e quindi, per rispondere correttamente alla tua domanda, ti dico che il primo incontro con la macchina fotografica l’ho avuto con me stesso, quando ho capito di averne bisogno per esprimermi senza dover parlare.

Rational dream Stefano Tommasi
Rational dream Stefano Tommasi

C: offrire corsi di fotografia agli studenti già a scuola potrebbe essere un modo di arricchire la formazione?

S: non  saprei. Personalmente, ritengo piuttosto inutili i corsi fotografici. Sia a scuola che in genere.

So di essere impopolare nel dire questo. Io stesso ne tenevo nel recente passato, probabilmente senza nemmeno averne la piena consapevolezza. Credo che la fotografia contemporanea non abbia molto da insegnare. Parlo a livello tecnico. I migliori fotografi che conosco, non sanno molto di fotografia. Non sono traviati, usano il mezzo per esprimere le proprie emozioni, la propria visione del mondo esteriore e, talvolta, interiore. Offrirei corsi di educazione al bello.

Autoritratto d'inverno
Autoritratto d’inverno

C: le tue foto raccontano storie che non si esauriscono nel momento che la foto ritrae, invitano a immaginare un prima e un dopo. Ricerchi sempre questa dimensione? 

S: la mia fotografia ha un approccio fondamentalmente emotivo/istintivo.

Sono spesso immagini “sospese”, in bilico tra prima e poi.

So che può sembrare un concetto piuttosto mistico, ma è così che nascono le idee: mi bussano alla porta ed io non devo far altro che farle entrare, e ritrarle. Amo quando accade che, anche solo ad una singola persona, una mia fotografia ha stimolato una curiosità, un’ emozione, un ricordo. Qualcosa che è anche un po’ suo.

La neve e le stelle
La neve e le stelle

C: una foto è una lettura della realtà: non è un fatto ma un’interpretazione. Cosa ne pensi?

S: penso che tutto sia interpretativo, la vita stessa lo è.

Senza titolo
Senza titolo

C: Lucca e la Garfagnana sono per te fonte d’ispirazione?

S: la Garfagnana senz’altro.Ho bisogno di solitudine per creare i miei lavori. Scenari onirici naturali. In questo, la Garfagnana è un paradiso. Non ho mai vissuto molto a lungo in luoghi opposti. Forse troverei altre ispirazioni, forse no.

C: come definisci la fotografia concettuale?

S: concettualmente indefinibile.

I sogni della mente
I sogni della mente

C: esiste un fotografo al quale ti ispiri di più?

S: esiste un fotografo meraviglioso che ho conosciuto soltanto 2 anni fa, ed è Duane Michals. Una cara amica mi disse che le mie fotografie le ricordavano quel fotografo, così l’ho cercato: sono rimasto a bocca aperta dalla forza emotiva delle sue opere ed anche alla vicinanza con il mio sentire. Posso dire che io sia stato ispirato da Duane Michals prima ancora di conoscerlo.

C: come è nata l’idea dei tuoi autoritratti?

S: dalla necessità e desiderio di esprimere la mia visione del mondo, sia onirico che reale. Che poi, è la stessa cosa.

 

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C: foto e parole sono spesso insieme nei tuoi lavori: esigenza o gioco creativo?

S: talvolta, le immagini non sono sufficienti per esprimere un concetto. Hanno bisogno di una “spinta”, di una colonna sonora sussurrata. Direi che sia un’ esigenza ma anche desiderio di sperimentare. A volte le immagini parlano da sole, a volte le parole creano fotografie, altre volte si incontrano, al centro.

Intervista: DARIUSH “sul bordo di una rosa”

Un uomo e una donna che si abbracciano rappresentano un centro del mondo.

Un centro da cui tutto ha inizio per esplodere in forme e colori.

Amore in una naturale purezza di abbracci che si offrono a chi guarda come “una farfalla al mezzogiorno”.

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Le coppie di Dariush, gli animali, come cavalli e gatti, prendono forma dall’infinita molteplicità e paiono sul punto di fondersi di nuovo, un attimo dopo, nel vortice eterno del tempo: quell’abbraccio o quella posa, li avrà cambiati fino alla loro profondità, per sempre.

Come si può amare l’altro? Solo una sua parte è concessa: conoscenza e comprensione, come siamo soliti intenderle, sono parziali:

ho amato un quarto di una donna

scrive Dariush, in uno dei suoi libri.

Un pensiero capace di ricordare, tra gli altri,  Pessoa, che ne  Il libro dell’Inquietudine scrive:

due persone dicono reciprocamente “ti amo” o lo pensano, e ciascuno vuol dire una cosa diversa, una vita diversa, perfino forse un colore diverso o un aroma diverso, nella somma astratta di impressioni che costituisce l’attività dell’anima.

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 L’incontro vero …quando è possibile?

Resta desiderio illusorio o è per noi possibile viverlo tra gli istanti che susseguendosi spiegano la nostra vita?

C’è il rischio di diventare pezzi in un puzzle dal disegno già stabilito.

La nostra libertà creativa può esprimersi davvero costruendo, come si fa con il gioco delle costruzioni, qualcosa che noi abbiamo pensato e progettato, autonomamente.

Così è necessario agire, afferma Dariush: “LEGO” e non puzzle, mattoncini componibili con cui dare forma e significati.

Quello di Dariush è uno stile che affonda le sue radici nella cultura mitologica e artistica persiane.

Dariush è  un pittore nato a Teheran e vissuto  in Francia e Italia, dalla formazione artistico-culturale complessa e ricca.  Le sue opere aprono a tempi e spazi lontani. Come porte aperte su un’altra dimensione dell’esistere i suoi lavori ricordano che la realtà che ci circonda non è schiacciata nel presente e in quello che crediamo di vedervi. Vi si schiudono visioni e prospettive nuove, inedite e sorprendenti.

La dimensione che abitiamo ha radici nel tempo ed è portatrice di differenti significati.

Sorrisi  luminosi irradiano un gioioso senso di libertà.

I lavori di questo artista, che ha raccolto innumerevoli e prestigiosi riconoscimenti in Italia e all’estero, si trovano in varie nazioni ma anche a Lucca,  alla Galleria L’Arte, curata da Pierluigi Puccetti. Le opere riportate in questa pagina sono tutte litografie realizzate da Angeli e si trovano alla Galleria l’Arte.

http://www.lartelucca.it/?file=kop4.php

 

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Chiara: Teheran, tutto comincia a Teheran, in un luogo che fino al 1979 si poteva chiamare Persia.

Dariush:   io sono un persiano di Iran. l’ Iran è un luogo pieno di differenze che vivono insieme da migliaia di anni in un modo che non si ritrova in nessun altra parte del mondo.  In Persia ci sono settantadue diverse appartenenze etnico-religiose: azeri di Iran, baluchi di Iran, kurdi di Iran, urdi di Iran, gilaki di Iran, ebrei di Iran, armeni di Iran, zarathustriani di Iran, africani fuggiti dalla schiavitù, due ceppi di cinesi rimasti lì dalla via della seta, discendenti di Alessandro Magno, turkmeni di Iran e molti altri.

I Persiani sono sempre stati molto noti per il loro senso dell’ospitalità, non è facile pagare un persiano perché vorrà sempre ospitarti gratis.  In Persia, tutto ciò,  si chiama proprio “l’arte di vivere insieme” una particolare abilità nel tenere insieme, in pace e collaborazione reciproca, appartenenze etniche e religiose molto diverse tra loro.

Chi arriva da fuori, una volta in Persia, riesce a farla propria.

 

Chiara: come era la scuola a Teheran quando eri piccolo?

Dariush: le differenze con la scuola di oggi sono innumerevoli. Stiamo parlando di ben cinquanta anni fa e ci sarebbero molte cose da dire. A scuola si faceva molto artigianato, in particolar modo vicino alle feste o alle ricorrenze. Io ero considerato il migliore in questo genere di attività e venivo premiato. A Pasqua, una volta ho vinto in premio sedici uova. Con i miei amici ne mangiai così tante che dovetti andare dal dottore! Spesso a scuola dovevamo creare oggetti, come gli aquiloni o tante altre cose che poi facevo anche per gli amici. A scuola c’era molto artigianato, coloravamo tutto, anche scatole di fiammiferi. A Teheran tutti i bambini andavano a scuola, fuori dalla capitale meno. Nella generazione dei miei genitori c’erano molti intellettuali e poco analfabetismo, mio padre ha studiato come generale in Francia, per esempio.

 

 Chiara: cosa la ha spinta a cominciare a dipingere?

Dariush: avevo bisogno di guadagnare, mi dedicavo all’arte decorativa e al disegno industriale in Persia, guadagnavo ventidue volte lo stipendio di un operaio ma ho lasciato perché sentivo di avere bisogno di fare qualcosa che mi appassionava di più. Sono venuto a Firenze e mi sono iscritto a architettura, ma facevo anche belle arti e scultura, con Berti e Farulli. Farulli mi fu indicato da un mio professore persiano che aveva studiato a Roma. In quegli anni ero molto attivo nel sindacato degli studenti, occupandomi delle rappresentazioni teatrali. Ho utilizzato molte volte le storie di Behrangi o di Brecht per fare teatro negli anni ’70. Costruivo maschere e marionette, lavoravo in uno spettacolo ispirato alla breve storia dello scrittore iraniano Samad Behrangi, The Little Black Fish. Dario Fo, vedendo che ero un buon artigiano mi chiese di lavorare con lui. Io non parlavo bene italiano ma a lui piaceva molto ciò che realizzavo. I temi dello spettacolo erano la ribellione all’ingiustizia e alla prepotenza, si trattava del capodanno 1976. Avevo realizzato un Unicorno. Ho portato in giro questo spettacolo quando avevo venticinque anni, da Napoli a Sanremo per trenta volte, sempre in piazza. Il linguaggio era molto popolare e provocatorio.

A me non è piaciuto mai restare confinato in un solo  campo, ho sempre preferito spaziare tra varie forme artistiche, in molti rami. A Firenze dipingevo opere che vendevo a genitori di iraniani che vivevano lì. Poi a Nizza ho iniziato a lavorare alla galleria Ferrero, dove c’erano degli originali di Chagall. Prima di allora mi dicevano che facevo cose troppo classiche. Ma nel 1979, quando ormai avevo deciso di tornarmene in Persia, Ferrero volle comprare tutti i miei lavori. Da lì lavorai sempre con lui che apprezzò tutto quello che avevo fatto fino a quel momento, anche i disegni sulle mitologie persiane. Fu Ferrero a consigliarmi di andare a Lucca a creare litografie, un’arte che pochi sapevano fare bene. Non conoscevo Lucca e in estate sempre del ’79 ho iniziato a lavorare con Giuliano Angeli, in via della Zecca, nelle litografie. Ho lavorato lì per 35 anni. Poi purtroppo chiuse perché iniziarono a diffondersi tecniche di riproduzione digitali e molto meno artistiche e specializzate. Quando Angeli lavorava, la sua intera famiglia era specializzata e impegnata nel lavoro delle litografie, tanto grande era l’applicazione che richiedeva questa specializzazione. Talvolta occorreva un’intera settimana per realizzare una litografia e il costo era necessariamente alto. Si trattava del tempo e del ritmo ormai perduto delle piccole botteghe artigiane. Come paragonare i cavalli alle Ferrari. Inizialmente io facevo litografie su “Lettere di re”, un antichissimo libro mitologico persiano, tradotto anche in cinese, che raccoglie storie di 5000 anni fa in sette volumi. Io allora facevo lavori su questo libro ma non piacevano molto agli acquirenti e allora lavoravo con l’astrologia, facendo illustrazioni astrologiche oppure decoravo e realizzavo i certificati dei tappeti persiani. I tappeti persiani di grande pregio sono sempre accompagnati da un certificato decorato artisticamente che ne riporta i dati principali.

Chiara: a quel punto si è dedicato sempre alla pittura?

Dariush: avevo voglia di fare qualcosa di diverso; io scrivo persiano, francese e italiano. Così ho iniziato a scrivere libri, tra i quali uno è tradotto in Italiano e si chiama “1,2,3…”. Mi occupo anche di numerologia, a modo mio. Scrivo storie bizzarre.

Chiara: un libro onirico, di visioni, simbolico con illustrazioni pregiate. Leggo la prima riga

I sogni sono passeggeri come il vento

e poi vado avanti…

Amo il tempo

tempo che non capisco

vado avanti e posso cogliere nel libro una visione del tempo che diventa mistero, che fluisce

non uguale

non è neanche simile, paragonabile, adesso

L’amata respira come

come il movimento di una farfalla

sul bordo di una rosa

prima di partire

E poi la vita umana è mistero

quasi corro per risalire sul treno

mi ricordo del tunnel, nero

e bianco.

Ma io non mi rammento più se sto

partendo o tornando.

 

 

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Chiara: Sepheri, uno dei più grandi pittori e poeti iraniani suggerisce che dovremo piuttosto nuotare nell’incanto della rosa invece di cercare di capirne il segreto.

Dariush: per avvicinarci a questo grande poeta è importante ricordare dove è nato.  Nacque e visse a Kashan in una bellissima città al bordo del deserto persiano. Il Dasht-i-Lut è un enorme e arida distesa salata e desertica.  Non è come il deserto dell’Arabia Saudita dove dentro ci sono gazzelle e animali di ogni tipo ma più aspro e più estremo. Tuttavia, negli anni 50 hanno fatto un censimento e vi hanno trovato dentro più di mille villaggi che non sapevano nulla di quello che accadeva nel resto dell’Iran, conoscevano solo la mitologia, come le già citate “Lettere dei re” tramandate oralmente.   Sepheri fu un artista molto popolare e utilizzò un linguaggio semplice. In alcune delle sue opere ci ricorda di non sporcare l’acqua perché forse un vecchio metterà lì il suo pane per ammorbidirlo oppure una madre potrebbe utilizzarla per dissetare suo figlio.

Chiara: oggi ci fanno credere di vivere in un mondo minacciato dallo scontro tra occidente e oriente.

Dariush:  l’uno non può stare senza l’altro. Ho sempre pensato che ci siano due tipi di economia, una di pace e una di guerra.

In seguito alla seconda guerra mondiale l’economia di guerra si è sviluppata sempre di più. La gente, nei più svariati modi, ha dimostrato di non volerla ma non è stata ascoltata.

Chiara: i personaggi delle sue opere guardano il mondo come immersi in un universo fuori dal tempo e hanno lo stupore dei bambini.

Dariush: la mia specialità è la matematica, io prendevo sempre 30 e lode a architettura, senza studiare. La matematica dà certezza, io volevo diventare pittore per guadagnare un po’ e dovevo disegnare in un certo modo per dare forza ai personaggi. Io non ho rappresentato le ombre, non ho dato molto movimento alle opere. Il mio capolavoro è il seno. Il collo è diritto. Queste caratteristiche hanno portato le mie opere un po’ fuori della dimensione carnale. Il naso non lo realizzo se il volto è di fronte e gli occhi sono ben aperti. Purezza. In un certo periodo ho osservato  i lavori di altri come Manfredi, o Guttuso, rendendomi conto che i miei nudi sono innocenti e per nulla volgari. Io cerco di disegnare il nudo con una purezza simile a quella, per intenderci, che sono in grado di esprimere gli indigeni dell’Amazzonia nelle foto che li ritraggono, svestiti e naturali.

Anche Modigliani è andato in questa direzione, porta fuori dalla realtà i corpi che rappresenta ed è un mistero come sia arrivato a poterlo fare.

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Intervista: MAURO TIBERI “filosofia della musica”

Di cosa avete letto questa estate?

Quali autori hanno accompagnato le vostre benedette, calde ore di sole?Per quanto mi riguarda, il tema dominante è stato la musica e in particolare, il canto. Da lì a ricordare la mia tesi di laurea, dedicata proprio alla voce, il passo è stato breve, anche se quel lavoro risaliva a ben dieci anni fa. Tesi che riguardava la voce e le sue potenzialità espressive.

Il nostro parlare è un atto creativo simile a quello che compie un musicista, parlando o cantando stiamo suonando uno strumento naturale e umano che è unione di corpo e psiche: soggetto che suona e strumento suonato si identificano. Nella voce, unica come ognuno di noi,  si trova ciò che siamo, dalle eredità genetiche alle successive esperienze che hanno caratterizzato la nostra vita.

Si tratta di un messaggio sonoro carico di significati.

In realtà tutto ciò che ci circonda è carico di significati, per chi lo sa ascoltare: il vento e il suo modo di sfiorare le foglie, lo scricchiolìo di una corteccia, l’acqua che massaggia uno scoglio. Tutto racconta. Possiamo connetterci alla dimensione sonora dell’esistenza. Una poesia del poeta Gibran, dai forti legami con il misticismo sufi e divenuta poi canzone interpretata da Fairuz, recita più o meno così:

“Passami il nay e canta perché il canto è il segreto dell’universo e la musica resterà oltre la fine dei tempi”.

E così, a tutti è dato di poter giocare con la voce, comunicando idee, immagini, emozioni, attraverso forme espressive altre, non convenzionali, sul piano fisico, psichico e spirituale.

“Tutto scorre” e anche la voce si modifica in base alle esperienze che viviamo.

Non è mai solo un mezzo informativo dal punto di vista linguistico. E’ comunicazione in senso lato, su più livelli, come la Scuola di Palo Alto insegna ma soprattutto come il nostro “istinto” sa riconoscere. Anche di questo si occupa l’artista che sono molto felice di presentarvi in questa nuova intervista. Per esperienza, posso dire che il lavoro con lui è in grado di schiudere inedite prospettive su se stessi e sull’altro, dove la creatività regna sovrana. Un lavoro profondo, in grado di riconnettere chi lo fa a energie naturali forti e ancestrali. Mauro Tiberi,  è polistrumentista, ricercatore vocale, musicista. Le sua formazione spazia dal canto difonico alla vocalità sacra orientale interessandosi anche di canto indiano negli stili dhrupad, kyal e qawwali  e canto indoeuropeo. Mauro ha fuso le conoscenze provenienti da varie tradizioni artistiche e percorre l’Italia e non solo, per esibirsi come musicista e lavorare con guppi di persone interessate alla sperimentazione di nuove forme espressive.

Da molti anni ha creato e conduce la rassegna “I Canti Misterici” nella basilica di San  Giorgo al Velabro a Roma. http://www.maurotiberi.comphoto.php

 

Da bambino eri già interessato alla musica?

Da bambino mi divertivo a suonare un pianoforte giocattolo Bontempi, poi dopo una chitarrafinta, sempre  Bontempi, su cui componevo canzoni in inglese inventato … (i danni della colonizzazione culturale americana nei primi anni 70). 

Invece, importante segno per il mio futuro, cantavo molto dalla finestra e così mia madre conosceva tantissime signore, inventavo canzoni con le parole … chissà quante cose diciamo, “fantasiose” avrò inventato… però avevano un risultato, vedere  questo bambino di circa 5 anni che cantava dalla finestra aveva destato molto in positivo l’attenzione del vicinato … poi, in seguito, le canzoni, in generale, non le ho mai più particolarmente apprezzate, ho sempre avuto più interesse per la musica strumentale e per un uso strumentale della voce. Tutto questo per dire, si, da bambino ero molto interessato alla musica. 

Quali incontri hanno pesato di più sul tuo percorso artistico?

Sempre da bambino, un incontro importante è stata l’India. 

Nei primi anni 70 mia madre lavorava come commessa in un negozio di oggetti e  stoffe provenienti dall’India e io ho passato tanti pomeriggi a cercare di suonare sitar, tampoure e altri strumenti sconosciuti,  anche mezzi rotti che giungevano  nel negozio. In seguito, quando nella mia vita dopo vari studi e lavori la musica è diventata la mia professione, molto significativi sono stati gli incontri con Michiko Hirayama una ormai molto vecchia grande cantante giapponese e tantissimi altri musicisti. Ma oltre le persone e i professionisti in genere, la cultura di una nazione ha dato l’impulso più importante alla mia visione della musica, al cercare di recuperare la funzione sociale e spirituale di quest’arte che oltre l’ascolto dell’aspetto estetico dei suoni  contiene tantissime altre cose utili alla salute, all’educazione e ad ampliare la visione delle cose. 

Determinante è stato un viaggio di lavoro in Iran che mi ha fatto vivere la funzione sociale delmusicista e, tornato in Italia da quel momento in poi ho  cercato di vivere così la musica. 

Non cercando la “popolarità” per essere chiari quando si  parla di sociale, ma di portare nella società i benefici  educativi che quest’arte riesce a dare  nella crescita spirituale, sociale, etica e fisica  dell’essere umano.

 

Mauro a Mecenate

Il tuo lavoro mira a creare armonia nella persona e di riflesso nella società. Questa finalità nel lavoro con il suono è tipica di molte culture, penso a quella della Mongolia, alla tradizione sufi, ma anche a quella della Grecia antica con i riti misterici e molte altre. Ti ispiri a qualche tradizione culturale, in particolare?

Si. Un pochino prendo da tutte queste culture  che hai citato nella domanda, però non sono mai riuscito ad aderire totalmente ad una di queste importanti filosofie. Credo di essere, sotto certi punti di vista, un sufi eclettico e sincretico allo stesso tempo.  Il mio obiettivo è quello di portare armonia, pace e gioia e la capacità di vivere l’amore nel senso più grande del termine… ci provo, non sempre ci riesco, però e per questo che mi sento un po’ un sufi.  

Ci sarebbe molto da aggiungere slegando il sufismo dalla religione … però si allargherebbe  troppo il discorso.  

La natura con i suoi infiniti suoni di vento, acqua, piante, animali, ha insegnato all’uomo la musica e gli ha dato l’ispirazione per creare a sua volta. Oggi molti bambini vivono in universi sonori poveri, le città, dove prevalgono suoni artificiali, auto, clacson, rumori di vario tipo. 

Questo è un problema reale che è molto più esteso della questione del suono, ma è legato alla disumanizzazione della vita, alla perdita dei rapporti con la natura e  con la natura umana …

Chi sono, oggi, coloro che si rivolgono a te per lavorare sulla voce e sul suono?

Molte persone che hanno voglia di conoscersi meglio attraverso la loro voce, persone che hanno timidezze o hanno capito di avere un grande potenziale esprimibile attraverso la voce vogliono conoscerlo meglio e svilupparlo ai fini del benessere e della comunicazione della loro essenza. Ho pochi professionisti, un 10% forse anche un po’ meno di professionisti intesi come cantanti, attori ecc, ma molti altri che sono professionisti della voce a loro insaputa …

Attraverso il lavoro sul suono è possibile sperimentare particolari stati non ordinari di coscienza?

Certamente. Questo è argomento di interesse di scienziati e c’è tantissima letteratura a  riguardo sui rapporti tra musica e trance  e in alcune esperienze è molto facile sperimentare stati non ordinari di coscienza attraverso il suono.

Daresti qualche idea per migliorare le ore di musica a scuola?

Fare laboratori di musica d’insieme destinati a chi non sa suonare e cantare e che forse non lo farà mai nella vita, mescolando a questi anche chi sa già suonare. Il risultato non sarà grande musica, ma una grande esperienza umana, poi una volta compreso dagli studenti cosa è realmente la musica, si potrà parlare di Bach e Beethoven e non saranno più, per la maggioranza degli studenti, la sorpassata espressione di una cultura  borghese …

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Intervista: FEDERICO BIANCALANI “Des ailes couvrent les feuilles”

Una sera di Aprile, quando ancora non era primavera ma di certo l’inverno era finito, sono andata a teatro per la messa in scena di un’opera minore di Čechov.

In quella occasione ho visto in scena una delle ultime creazioni di Federico Biancalani.

Mi ha incuriosito non poco.

Quel ”viaggio” in Russia aveva lasciato intravedere paesaggi che volevo visitare subito, scendendo dal treno e andando a piedi, con tutta la voglia di dare spazio alla meraviglia.

Felicemente persa, eccomi a raccontare.

Scenografia, illustrazione, formazione, scultura, pittura, grafica, sono gli ambiti in cui il lavoro di Biancalani si concretizza.

Una solida formazione e numerose, notevoli esperienze, spesso riconosciute da premi e menzioni di merito, lo caratterizzano. Un lavoro che si configura come ricerca espressiva costante, in dialogo aperto con il momento presente e le sue dimensioni più recondite.

La natura spesso è messa in scena e celebrata con una semplicità minimalista che ne esalta la straordinarietà.

Creazioni che rimandano a una dimensione dell’essere che si colloca tra ragione e inconscio, sonno e veglia, dinamica e stasi.

Ti trovi davanti a una sua illustrazione e pensi al surrealismo.

Ma poi dimentichi questa parola. Del resto non è che una definizione, mentre, per rifarmi alle parole di qualcun altro, l’arte dà forma agli enigmi e lascia perdere le soluzioni.

Per conoscere meglio Federico Biancalani, oltre a leggere questa intervista, si può navigare verso il suo sito, l’esperienza diretta saprà dire certo più delle mie parole.

http://www.federicobiancalani.com/

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Opera di Federico Biancalani, Titolo: Babbo, tecnica: acquerello su carta, 25×35 cm, 1978

Federico, da bambino,  sapeva già che lavoro voleva fare da grande?

‘Federico da grande’ sa che ‘Federico da bambino’ è ormai perso e non vuol fare come certe vedove che mettono in bocca al marito defunto affermazioni che il marito non si sarebbe mai sognato. ‘Federico da grande’ stenta a trovare un collocamento esatto nel mondo e pensa che probabilmente anche ‘Federico da bambino’ non avesse idee più chiare. Quando ‘Federico da grande’ guarda ‘Federico da bambino’ nella immagine del profilo della sua pagina Facebook – alla guida di una macchinina di plastica gialla, con casco ed occhiali da velocità – gli pare di riscontrare una sfumatura interrogativa negli occhi, come dicesse “Si ma ora ‘ndo vado? Piove pure!”

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Opera di Antonio Biancalani, Titolo: Federico, tecnica: olio su tavola, 120×150 cm, 1979

Ci sono stati incontri importanti, in grado di influenzare positivamente il tuo percorso artistico?

 Mio padre è un pittore e pertanto pennelli, colori e odori di olio di lino hanno influenzato il mio orizzonte sensoriale sin da bambino. Lo studio di mio padre era una stanza al primo piano. Il pavimento in cotto, poggiato su travi e travicelli di legno, era elastico. Camminandoci oscillava come un delicato terremoto sussultorio. Appoggiato su una sedia e con le ginocchia per terra disegnavo divertito da quella oscillazione. Tutto ciò credo sia una influenza talmente radicale da non sapere come descriverla se non sottoforma di ricordi sensoriali. Al liceo artistico gli impiantiti erano piuttosto stabili, ma per fortuna c’era Rosetta Di Ruggiero – insegnate di plastica, bravissima restauratrice e persona dalla vitalità sismatica. L’irruenza sismatica di Rosetta era ben più scioccante del pavimento di mio padre, aveva il pregio di allargare gli orizzonti e di sgretolare quelle costruzioni effimire e seriose – tanto care al giovane artista – incoraggiandoti a costruzioni ariose da porre al cimento dell’ironia e della sperimentazione. Recentemente ho fatto l’allegra conoscenza di Michele Sinisi, valoroso regista e attore. Per quanto diversi per temperamento ci troviamo a spartire la stessa passione per la vivacità dei terremoti, per il piacere di perturbare le convenzioni ed appendere alla porta del teatro il cartello:

‘Work-in-progress’

‘Vietato l’accesso agli addetti ai lavori’

 Osservando le tue creazioni emerge una costante, incontenibile ricerca di nuove forme espressive: cosa riesce a orientarti ?

 In verità mi trovo spesso disorientato, e in verità ho un pessimo senso dell’orientamento anche per le strade, talmente pessimo da sfiorare la patologia. All’inizio mi si presentano molte possibilità, tante strade possibili, e quello che mi è più chiaro è ciò che non voglio. Poi comincia a precisarsi quello che voglio e comincio ad intuire  qualcosa che sottende e muove le possibilità singole, come se la struttura topografica delle strade si facesse più chiara, allora seguendo quel qualcosa riesco ad orientarmi. Credo esista una differenza tra la pensata e l’idea. La pensata è qualcosa che finisce lì, l’idea è una dinamica di più ampia che richiede sintesi e che va trovata nell’immanenza della prassi, dei materiali e degli strumenti. Finche non intuisco qualcosa che si avvicini ad un’idea continuo a pesticciare per i vicoli piuttosto nervosamente.

 È possibile rintracciare una specifica tonalità, un tema ricorrente in tutto quello che crei?

 Su un piano formale e tecnico se dovessi individuare due qualità ricorrenti direi leggerezza e trasparenza. Se ciò che ho detto riguardo all’immanenza non è solo una speculazione ma qualcosa che appartiene a quello che faccio, queste due qualità dovrebbero significare qualcosa anche ad un livello più ampio, ma onestamente non so cosa.

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Opera di Federico Biancalani, Titolo: Stultifera Navis, Tecnica: rete in acciaio armonico e ferro, dimensioni variabili, 2013

Il tuo recente lavoro come scenografo di “Miseria e Nobiltà”, per la regia di Michele Sinisi, ha riscontrato un grande consenso di pubblico e di critica. Vuoi parlarci di questa esperienza?

Lo spettacolo ancor prima di ricevere un grande consenso di pubblico e critica ha ricevuto il grandissimo consenso di chi ci ha lavorato. Più che ad uno spettacolo abbiamo pensato a questo progetto come ad una festa su miseria e nobiltà. A tal fine tutti – i dieci meraviglosi istrioni, il drammaturgo Francesco Asselta, gli aiuti regista, i tecnici, la produzione, i laboratorianti – tutti hanno contribuito meravigliosamente a mantenere questa fucina ad un regime di fuoco scoppiettante se non divampante. Purtroppo l’arte viene frequentata sempre più dai soli addetti ai lavori e gli ambienti artistici stanno diventando circuiti sempre più chiusi e seriosi. La festa è una dimensione che abbiamo cercato per ritrovare l’aspetto ludico del teatro, per  tentare di rompere la chiusura dei circuiti artistici e riconquistare l’originaria funzione di rito collettivo. Ricordiamoci che anticamente il teatro era solo una parte di ritualità ben più ampie come le dionisie greche, i ludi latini, le sacre rappresentazioni etc.

Abbiamo dunque cercato un respiro ampio, abbiamo attivato laboratori attoriali e scenografici, lavorando sul palco con prove costantemente aperte al pubblico; dal punto di vista della messa in scena abbiamo giocato con i momenti memorabili del testo, concentrandoci su quelle scene ormai divenute parte dell’immaginario comune. Il progetto si è alimentato di questa energia collettiva.

Finite le prove succedeva spesso di trovarsi in qualche posto e di continuare a lavorare a suon di danze e Moscov Mule. Lavoravamo circa 12 ore al giorno, la pausa pranzo era spesso breve e frugale ed a fine prove, affamatissimi, saccheggiavamo i buffet degli Happy Hour milanesi come fossimo veramente i poveri di Miseria&Nobiltà quando arrivano a casa del cuoco arricchito. Un metodo Stanislawsky riportato alla concretezza fisiologica dei succhi gastrici!

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Miseria&Nobiltà, foto di scena

 

Nel tuo lavoro ti occupi spesso di infanzia, ragazzi, educazione. Quali obiettivi ti prefiggi di raggiungere in questi casi?

Durante il fermento chiassoso di un laboratorio sull’argilla con un gruppo di quattro anni, un bambino viene da me e mi mostra un piccolo ovulo d’argilla dicendo “Guarda, ho fatto un sasso!”. Senza dubbio il manufatto, nella sua semplicità, coglieva il soggetto con una compiutezza formale degna del miglior Canova. Dopo dieci minuti torna da me mostrandomi lo stesso manufatto e dice “Guarda, ho fatto un pinolo!”. Ignoro se in quei dieci minuti il pargolo abbia fatto e disfatto quaranta volte l’ovuletto, o se invece non l’abbia neanche toccato, sta di fatto che sono rimasto folgorato da ciò che mi aveva mostrato. L’approccio infantile a quelle attività che noi adulti chiamiamo artistiche mi ha spesso aperto delle prospettive che sono dei veri baratri.

Nei miei laboratori probabilmente cerco uno scambio, non credo di volere e potere insegnare qualcosa. Quello che tento di fare è ciò che fa un bravo vinificatore: l’uva fermenta da sola e il vinificatore  la sorveglia, pulisce i tubi e rimuove le fecce quando è il momento. Credo che l’infanzia disponga di lieviti freschi capaci di fermentazioni estetiche sorprendenti e che tali fermentazioni vadano assecondate per quello che sono. Bisogna dimenticarsi soprattutto del nostro concetto adulto di arte, anzi il nostro concetto di arte è proprio quella feccia che va rimossa perché non ‘adulteri’ il vino. In altre parole il processo va curato senza pretendere il risultato. Ogni stagione, ogni uva darà un vino irripetibile, ma oggidì gli enologi vanno per le cantine con le mazzette colore e stabiliscono a priori come dovrà essere il vino. C’è troppa attenzione sull’infanzia, mi piace pensare potergli regalare dei momenti di disattenzione, una botte vuota in cui possa fermentare il vino dell’imprevisto.

Occhi_chiusi3.jpg: "Disegna quello che vedi a occhi chiusi", laboratorio per prima elementare, tecnica: carboncino su cartoncino nero
“Disegna quello che vedi a occhi chiusi”, laboratorio per prima elementare, tecnica: carboncino su cartoncino nero

 

Occhi_chiusi3.jpg: "Disegna quello che vedi a occhi chiusi", laboratorio per prima elementare, tecnica: carboncino su cartoncino nero
“Disegna quello che vedi a occhi chiusi”, laboratorio per prima elementare, tecnica: carboncino su cartoncino nero
Occhi_chiusi2.jpg: "Disegna quello che vedi a occhi chiusi", laboratorio per prima elementare, tecnica: carboncino su cartoncino nero
“Disegna quello che vedi a occhi chiusi”, laboratorio per prima elementare, tecnica: carboncino su cartoncino nero

Intervista: STEFANO NOTTOLI “c’è un gatto sopra il tetto che cinguetta col cappello da cowboy”

Il 2016 vogliamo aprirlo in musica.

A fare gradita incursione nella casa di Disegnostorie è il caro Stefano Nottoli, cantautore e pianista toscano.

Innegabilmente ricco di talento, caratterizzato da uno stile personale, molto originale, a tratti onirico, decisamente raffinato. I suoi pezzi accompagnano chi ascolta in un mondo fuori dal tempo, popolato da personaggi surreali, poetici e teatrali. La fantasia si accende e la voglia di ballare si fa irrefrenabile.

Cantastorie, cantautore, musicista, attore, performer, docente di scienze presso le scuole superiori.

Un passato di diverse esperienze musicali, attraversando generi e stili diversi e arricchendo la sua gamma espressiva con sfumature ben rintracciabili nel suo lavoro.

Teneva i primi concerti in casa, lo strumento erano i coperchi delle pentole della mamma, la location la cucina. La platea era esigua e l’impianto audio non ancora all’altezza, così, solo i familiari potevano assistervi. Per nostra fortuna, a 16 anni fondava la sua prima band. Successivamente ha cambiato più volte formazione artistica attingendo alle più diverse tradizioni musicali italiane e internazionali, contemporanee e non.

Ha suonato in una band dal nome Guerrilla farming,  livornese, di ispirazioneReggae, con la quale, nel 2009, ha potuto creare il suo primo lavoro Naturale con la One step records.

Con il regista Stefano Nicoli, ha scritto colonne sonore e interventi musicali per diversi cortometraggi,  come Lucca the north-west corner of Tuscany.

 La sua discografia:

Ritagli di tempo – 2012 – Pinolaupitu Production
Lo chiamavano Parafango – 2015 – Pinolaupitu Production

Preziose informazioni sui suoi gustosi concerti potrete trovarle su

http://www.stefanonottoli.com/

Premio Magnino - 2015
Premio Magnino – 2015

Chiara: ascoltando questo tuo secondo album “Lo chiamavano Parafango” viene naturale pensare al teatro canzone, si può?

Stefano: Gaber l’ho conosciuto di più con il tempo, ho sempre avuto il fascino del teatro e questa volta ho voluto unire le due cose: c’è una parte recitata e una cantata. Ho un maestro di canto che lavora molto anche con gli attori.

Ho sempre suonato il pianoforte ma poi, a partire dal 2010 ho avuto tanta voglia di cantare e ho iniziato a farlo. Mi sono trovato davanti ad un bivio, ho capito che la strade davanti a me erano due: “o smetto di suonare o inizio a cantare”, mi son detto. Ho ripensato a che cosa mi piacesse davvero fare fin da bambino e l’ho fatto, così ho iniziato a cantare e mi sono reso conto che è ciò che voglio.

Ho avuto anche la fortuna di incontrare un maestro di canto con cui lavorare in modo nuovo. Non si tratta di esercitarsi direttamente sulla voce ma di preparare il corpo e la mente alla voce.  Creare le condizioni psicofisiche affinché la voce possa esprimersi al meglio. Così, dopo circa due anni, i benefici che questo lavoro mi stava dando sono diventati tangibili.

Si tratta del “Metodo Funzionale” che si avvale anche di momenti di meditazione e visualizzazione.

Chiara: sono entrata nel tuo sito ed è come entrare a teatro.

Stefano: il sito è curato dal mio batterista, è in realtà molto semplice, come la copertina di “Lo chiamavano Parafango”, che è curata sempre dalla stessa persona. Sono molto contento del risultato.

La teatralità, sì, mi appartiene…Una sera, suonando in un locale di amici, a Lucca, mi è stato detto di somigliare a Manolo Strimpelli, artista lucchese che ha lavorato anche con Capossela. Un grande complimento.

Mi piacerebbe lavorare in un teatro.

Posso dire di essere piuttosto egocentrico, passo da serate dove preferirei soltanto essere ascoltato a altre dove, al contrario, amo fare “caciara” divertendomi a coinvolgere il pubblico in tutti i modi.

Apro una parentesi riguardo al Lucca Summer Festival che, a volte, è molto criticato dalla maggior parte degli artisti lucchesi. Perché invece di limitarsi a criticare cosa non va, non iniziare a fare un Festival degli artisti lucchesi che possa avviarsi e poter, poi, camminare da solo? Se funzionerà, allora sì, in quel caso potremmo pensare anche a future collaborazioni con gli eventi più affermati come il Summer.

E’ importante fare qualcosa di concreto da offrire, qualcosa che funzioni e che possa essere una risorsa vera e non solo una “passerella” stile “next please”, dove ognuno ha solo 5 minuti per poi doversi sbrigare a lasciare spazio ad altri.

L’alternativa alla critica inutile è partire con progetti concreti… proposte diverse che mostrino di funzionare. Risorsa per la città e per il futuro. Qualcosa che possa crescere grazie al riscontro del pubblico. Se non c’è questo step iniziale da parte degli artisti, è difficile realizzare qualcosa visto che, come si sa, nessuno ti viene a cercare.

Premio Magnino - 2015
Premio Magnino – 2015

C: fare rete è fondamentale.

S: sì ci sono molti esempi… anche nella musica, pensiamo a Gazzè Silvestri e Fabi. Hanno in comune gli esordi della loro carriera a Roma, poi si sono dedicati ognuno ai propri percorsi per poi trovarsi di nuovo insieme.  Suonare con qualcuno con cui condividi un percorso comune e la stessa voglia di creare può essere una valida risorsa per crescere artisticamente. Una risorsa che dà qualcosa in più e di complementare allo studio tradizionale.

Chiara: per te è stato così?

Stefano: mi capitava quando suonavo nelle jam session. Tornavo a casa davvero arricchito. Erano serate dove ognuno di noi aveva la sua visione della musica da regalare agli altri, interpretazioni inedite di pezzi noti… vivere questo tipo di esperienza era un po’ come aver seguito dieci lezioni tutte insieme.

Lo studio è importante, il lavoro autonomo individuale pure, ma il confronto è fondamentale, ti metti in discussione, ti esponi e puoi attingere a risorse nuove.

Chiara: come sei entrato nel mondo della musica?

Stefano: credo di esserci sempre stato. Mio nonno suonava nella banda paesana, mio fratello aveva amici musicisti così  ho potuto sentire il richiamo di questo mondo e la forte voglia di viverlo in prima persona. Avevo una chitarrina e potevo divertirmi tanto provando a suonarla. Andavo a vedere la banda paesana dove si esibiva mio nonno e poi, una volta a casa, eccomi lì a marciare intorno al tavolo della cucina con i coperchietti delle pentole.

Negli anni ‘80 i primi video di Videomusic: mi avevano stregato, improvvisavo esecuzioni, allestivo “palchi” e immaginavo concerti di diecimila persone nella campagna dei dintorni. I giochi in tema di musica erano per me i preferiti e occupavano le mie giornate di bambino. Mio fratello mi aveva insegnato a suonare il flauto prima che andassi a scuola e quando arrivai in classe mi trovai avvantaggiato.

Festa del Vino - Montecarlo, Lucca - 2015
Festa del Vino – Montecarlo, Lucca – 2015

Su consiglio del mio professore di musica iniziai a prendere lezioni. Volevo fare il chitarrista ma nel mio piccolo paese,  Santa Maria a Colle, non c’era moltissima scelta… Per fortuna abitava lì vicino una maestra di pianoforte. Per praticità scelsi di imparare a suonare il piano ma con il progetto, in seguito, di realizzare il sogno della chitarra.

In realtà mi sono innamorato del piano e tuttora vi sono artisticamente molto legato.

Fin dall’adolescenza scrivo canzoni, avevo raccolto tanti testi, poi, il fiume vicino a casa mia esondò nel Natale 2009 e distrusse tutte quelle mie creazioni.

Ne sono ancora così dispiaciuto. Anche se molte di quelle canzoni ormai non sarebbero state forse  più proponibili erano comunque parti della mia storia, ricordi unici, irripetibili.

Ne ricordo in particolare ancora una: alle medie, nella lezione di italiano qualcuno lesse “a Silvia” uno dei capolavori di Giacomo Leopardi.  Io ne fui così colpito che appena arrivai a casa scrissi una canzone su quella poesia.

Non mi ricordo più le parole ma ho memoria soltanto che era scritta in rosso e sono sicuro che oggi avrei potuto riproporla. Purtroppo, nel 2009 non c’era l’abitudine di salvare tutto sul pc.

Chiara: scrivere testi non è come scrivere un diario o un racconto, si tratta di una competenza particolare.

Stefano: sì, è così, a volte vengono proposti corsi che promettono di insegnare a scrivere canzoni. Io non ne sono mai stato attratto, non certo per presunzione, bensì per paura di restare legato a degli schemi, temo di diventare troppo tecnico.

Il senso artistico non ha molto a che vedere con la tecnica.

I cantastorie, come nel passato, non sono persone di studio, ma hanno avuto la capacità di strutturare una loro naturale pratica, legata a un ritmo tutto personale. Amo sperimentare, seguire una mia evoluzione naturale.

Chiara: questa passione per la musica è naturale, nasce con noi o prende forma dalle nostre esperienze prima di bambini poi di uomini? Per te la prima ipotesi sembra più vera.

Stefano: ognuno può parlare per sé. Nel mio caso, sì, questa passione assume i connotati di un bisogno fisiologico… impellente come altri più prosaici!

Qualcosa che mi contraddistingue da sempre.

Un bisogno che scaturisce in modo naturale, non lo si può forzare, si costruisce a poco a poco, ha i suoi tempi.

Un albero che cresce segue il suo ritmo, le sue stagioni, se lo si vuole forzare non ne scaturisce niente o al massimo qualcosa di artificiale. Per me la musica è un bisogno più o meno forte a seconda dei momenti. Sono impulsivo e irruento penso una cosa e la vorrei fare subito  ma paradossalmente, in questo caso no.

Stefano Nottoli a Radioradicchio-  2015
Stefano Nottoli a Radioradicchio- 2015

Sono contento quando mi accorgo di aver creato qualcosa che non sta in una dimensione del tutto razionale. Quando chi mi ascolta apprezza quello che faccio perché è capace di evocare qualcosa che non si riesce neanche a spiegare. Pezzi che  “arrivano” e piacciono…un bambino che balla sulle mie canzoni, per me, è una vittoria! Significa che si è arrivati a una dimensione che non è razionale! Mio figlio di tre anni che vuole ascoltare “Il gatto Jack” ottomila volte mi fa contento perché vuol dire che sente in quella canzone qualcosa che va oltre le parole e la storia, qualcosa di magico. Tutti i bambini sanno coglierlo molto bene. Invece nei “talent” tutto è molto studiato. Con tutto il rispetto per i diversi percorsi che ognuno di noi può compiere, spesso, i “talent” sono un po’ fuorvianti, danno una visione molto lontana dalla realtà della musica e del lavoro artistico. Senza contare che tanti cantanti che vi partecipano rischiano di essere poi ricordati dal grande pubblico, per il resto della loro vita, solo perché sono arrivato secondi a “X Factor” e non per un loro particolare talento o per la specificità del loro stile.

Chiara: oggi ci si può avvicinare alla musica per tante ragioni: grazie a un maestro, a un amico, a internet o chissà.  Da cosa partiresti per insegnare la musica a un bambino?

Stefano: c’è un film che mi ha colpito molto, “Ray”, ispirato a Ray Charles e alla sua storia incredibile. All’inizio del film lui è già cieco e conosce un signore che sa suonare il piano. Quest’uomo coinvolge Ray bambino chiedendogli di suonare come fosse un parlare, proprio come si fa con la lingua parlata dove ad un suono si risponde con un altro suono. Questo è il modo in cui ha imparato Ray Charles. Credo che sia così con la musica.  Un linguaggio come quello delle parole: nella nostra vita seguiamo questo metodo, si parla subito senza prima aver imparato la grammatica, così credo sia meglio imparare a suonare, prima possibile, prima della teoria. Questo si afferma anche con la cosiddetta Audiation del Metodo Gordon che fa parte nella Music Learning Theory.

Mio figlio Riccardo e io a volte facciamo come in quel film.

Il pianoforte, a casa, è sempre aperto. Mi siedo davanti al piano e poso Riccardo sulle ginocchia, poi, inizio a suonare e lui batte le risposte ai miei “discorsi” musicali.  Si parla,  si comunica tra padre e figlio in un mondo di note. Nel futuro forse potrà scegliere di studiare musica in modo più sistematico o forse farà il calciatore. (ride)

Chiara: mentre parliamo la nostra voce comunica con il suo ritmo e la sua intonazione e non solo con le parole.

Stefano: certi dialetti hanno una musicalità più pronunciata di altri.

In passato tutti cantavano molto di più, oggi è diventata un’attività solo degli artisti.  Io non ho sempre cantato. Lo facevo in un gruppo dai 16 ai 18 anni poi ho smesso per un problema di salute e non ho più cantato fino al mio primo disco: avevo deciso di suonare e basta. Ero molto meno intonato di adesso.  Ho lavorato molto in questo senso e con tanta fatica posso dire di aver recuperato. Ho ancora molte “finezze” da acquisire e molto orecchio da raffinare ulteriormente, ma un certo miglioramento rispetto al passato, con tanta fatica e lungo lavoro sull’intonazione, c’è stato.

Chiara: ci sono state persone che hanno influito più di altre sulla tua crescita e ispirazione musicale?

Stefano: ultimamente, il lavoro di Bobo Rondelli o Vinicio Capossela mi ha certamente ispirato moltissimo. Sono molti, per me, gli ispiratori, tanti quante sono state le fasi del mio percorso.

Ho ascoltato tanta musica.

Un tempo, tanti anni fa, verso i miei vent’anni, ci sono stati i Subsonica e con la mia band facevamo la loro musica. Di certo, da quando ho deciso di cantare come solista,  Capossela mi ha ispirato molto.

Chiara: questa tua trasformazione nel tempo è evidente anche dai tuoi due album. Si può riscontrare molta differenza di stile tra il primo e il secondo.

Stefano: il mio primo lavoro “Ritagli di tempo” nasce dalla voglia di rompere con il passato, da una ispirazione ad un sound molto acustico, ci sono fisarmoniche e violini. Si possono riconoscere tracce del lavoro di Mannarino che apprezzo particolarmente per la sua scrittura dei testi e influenze di Capossela.

Il secondo album è nato da una voglia di rock che doveva essere un recupero di esperienze e passioni passate. Così, in “Lo chiamavano Parafango”, si sono potute sviluppare sonorità che richiamano i Doors ma anche ritmi raggae forse più nascosti, ci sono chitarre elettriche e organetti. La canzone “Sotto le lenzuola” inizia con un levare che può essere ricondotto al reggae e finisce con risonanze acustiche che riportano la memoria ai Doors.

E’ stato molto liberatorio, una volta raccolto il passato si è più liberi per il futuro.

Chiara: per quanto riguarda la canzone “Una giornata ordinaria”, c’è una bellissima voce femminile che interrompe molto l’andamento complessivo dell’album.

Stefano: si tratta di Elisabetta Maulo dei Betta Blues Society.  Canta la canzone creando un’ atmosfera molto diversa rispetto a quelle precedenti. Mi sono chiesto, a volte, se sia stata la scelta più giusta ma era ciò che sentivamo in quel momento sotto la spinta di diversi stimoli. L’album, già dal titolo, “Ritagli di tempo” svela la sua natura: nasce da pezzi nati in momenti diversi e sotto l’impulso di differenti suggestioni artistiche.

Per esempio “Paris” prende forma da incontri curiosi avvenuti durante un soggiorno parigino in casa di amici.

Chiara: vari incontri. Ma Leo esiste? I paesini intorno a Lucca sono popolati da personaggi che potrebbero nascondere storie come la sua.

Stefano: Leo è il personaggio protagonista, colui che tutti chiamano Parafango. Sono cresciuto vicino al manicomio di Maggiano. Lucca, la provincia, e tanti altri luoghi, nascondono personaggi simili. Ne ho visti svariati. Leo nasce un po’ da tutti quei personaggi a limite del surreale che possiamo incontrare in certi luoghi.

La storia di Leo nasce in un periodo in cui stavo scrivendo molto e raccontavo storie. Mi chiesero di scrivere un pezzo sulla bicicletta perché in quel momento passava il campionato europeo di ciclismo da Lucca. C’erano vari progetti in programma per farne un cd.

Tuttavia il pezzo restò lì per un bel po’ di tempo e non venne utilizzato per quello scopo. Continuai a scrivere altre storie, tutte parlavano di un personaggio e poi c’era “Che vuoi che sia”, dove descrivo la mia idea della morte. Ho creduto di poter raccogliere queste storie come fossero episodi diversi della vita di un unico personaggio e “Che vuoi che sia” come conclusione. Così ho fatto ed è nato l’album.

Leo esiste e non esiste: una volta, a cena, mio padre e mio nonno raccontavano storie dei loro tempi e proprio a quelle si riferisce “Alcolemico amore”: un loro vecchio amico dal fisico non troppo ordinario e le sue galanti avventure.

Chiara: avventure finché Leo non s’imbatte nel vero amore. Ecco Brunilde.

Stefano: mi sono ispirato al film Django Unchained di Tarantino. Brunilde è un pezzo che nasce da lì. Parla del protagonista del film, “sembra follia ma c’è magia”, è quella storia fino all’esplosione finale dove Django libera la sua compagna Broomhilda.

Chiara: la cultura musicale per un bambino che cresce in cosa può consistere?

Stefano: dobbiamo definire il campo: quale musica e quale bambino, in che contesto?

In termini generali, la musica è necessaria fin dalla gestazione, sempre più studi lo dimostrano. In seguito è meglio imparare a conoscere più musica possibile, avere più stimoli così da permettere ai bambini di scegliere, in seguito, su quali generi focalizzarsi.

La musica educa e di certo ce ne vorrebbe di più.

Gli stimoli da fornire, già a partire dalla scuola, più sono e meglio è.

Non possono essere limitati al “flautino”, come troppo spesso accade.

Credo soprattutto che sia necessaria una maggiore educazione all’ascolto, non è il problema di trovare una scuola di musica o di imparare a studiare uno strumento: le scuole di musica sono tante e non ci sono difficoltà in questo senso. Manca una educazione all’ascolto. Indispensabile come persone, come futuri ascoltatori e come musicisti.

Ho avuto la fortuna di ascoltare molta musica grazie a mio fratello che indirettamente, senza saperlo, ha influito moltissimo sulla mia formazione musicale, aveva 5 anni più di me e anche solo giocando, mi ha, involontariamente, ispirato e introdotto alla musica.

Stefano Nottoli - 2015
Stefano Nottoli – 2015

Chiara: quando scrivi un testo che fai?

Stefano: non ho uno schema ben preciso, ho paura degli schemi, non voglio sentirmi legato.

Arrivano generalmente insieme, testo e musica, ma, a volte, invece, no,  per esempio,  “Tango del mattino” nasce prima per la musica poi come  testo.

Quella canzone si riferisce alla storia dei nonni della mia compagna: lui di famiglia di modeste origini aveva potuto trovare scampo dalla guerra suonando in una agiata famiglia.

La sua amata, invece era ricca e nobile. Una storia osteggiata, di cui ritraggo una scena:  una passeggiata romantica che rappresenta la loro rivincita davanti a tutti coloro che li hanno derisi e non credevano nella forza del loro sentimento. Ultimamente scrivo molto buttando giù i testi e poi musicandoli dopo: questo sistema mi  fa sentire più libero.

Alcune statue di nudo dei Musei Capitolini sono state coperte con dei pannelli bianchi su tutti i lati

Lo spazio
Lo spazio

Non è il titolo tratto da un giornale apparso nell’ultimo film di fantascienza. Accade veramente, nel 2016, a Roma.  Era già accaduto, di recente e non centinaia di anni fa, che opere di artisti, ritenute offensive, venissero “censurate”, uso volutamente una parola forte poiché non riesco a trovarne una ugualmente idonea.

Dal tam-tam mediatico che a livello mondiale ne è seguito, ormai sappiamo tutti che cosa è accaduto, dove e quali sono state le motivazioni addotte a giustificare questo “eccesso di zelo”, forse anche piuttosto kitsch.

Dalla lettura della notizia possono scaturire naturalmente alcune domande.

Il censurarsi può condurre verso la pace?

Si è liberi di aprirsi all’altro quando si ritiene di dover nascondere qualcosa?

Considerare offensiva un’opera d’arte significa considerare offensivo appartenere all’umanità.

Il patrimonio artistico che ci è dato di custodire forse non è solo italiano ma è dell’umanità: gli artisti sono del mondo,  l’arte non ha patria, circola e appartiene a tutti, come l’aria.

Pace non è assenza di conflitto, è piuttosto ricerca del modo migliore per attraversare il conflitto, la divergenza e il contrasto che inevitabilmente si creano dove c’è una società di uomini liberi.

Il dialogo si costruisce con il confronto, con lo scambio e  la relazione vissuta e partecipata.

Come molti filosofi e psicologi in tempi e luoghi diversi hanno insegnato, l’arte appartiene ad una dimensione che travalica il livello razionale dell’uomo, attingendo e sconfinando in un altrove che è mistero e meraviglia.

Si può ridurla entro confini puramente  razionali e schiacciarla entro un opinabile criterio morale?

Sono molte le domande che possiamo continuare a formulare.

Abbiamo tempo per trovare delle risposte soddisfacenti prima che qualcuno ritenga conveniente cercare il modello di tanga più appropriato per il David di Michelangelo Buonarroti.

 

 

Intervista: GIANMARCO CASELLI “Oltre”

Gianmarco Caselli, è un artista lucchese per nascita, cosmopolita per indole, premiato dal Rotary Club Lucca e Rotaract nel 2012 come “Grande talento Lucchese”.

Il suo impegno artistico si riversa in svariate attività: dal mondo dell’insegnamento scolastico formale, (è insegnante di lettere nella scuola secondaria superiore), a quello della ricerca e della musica:  Gianmarco Caselli è anche uno sperimentatore, studioso,  giornalista e  premiato autore di poesie e racconti.

Gianmarco Caselli, backstage di PupilleGianmarco Caselli, backstage di “Pupille”

Negli ultimi anni  si è distinto sempre più, soprattutto, come pianista e compositore.

Provando a definirla, la musica di Gianmarco Caselli si caratterizza per una raffinata fusione di elettronica e strumenti tradizionali, poiché non esaurendosi in una sperimentazione fine a se stessa, autoreferenziale, e se vogliamo, superata, cerca invece accordi e punti di contatto tra il presente e il passato, creando futuro.

Negli utlimi anni le sue composizioni hanno ottenuto riconoscimenti in concorsi internazionali e si sono distinte in prestigiosi Festival, (Carnegie Hall di New York, Centre de Cultura Contemporània de Barcelona, Berlino, Kiel, Città del Messico, California, Istituti Italiani di Cultura di Amsterdam, Copenaghen, Amburgo, Londra, Uruguay, Argentina).

Ideatore e direttore artistico del LUCCA UNDERGROUND FESTIVAL che si propone di divulgare l’arte, lontana da luoghi comuni, necessità, cliché. Il Festival, quest’anno ha indetto anche un Contest per racconti Horror che in giuria vede nientemeno che il direttore di Splatter e la giornalista Valeria Ronzani, direttrice di Words In Freedom e chiuderà il cartellone con Gary Brackett, Direttore Artistico di The Living Theatre Europa.

Gianmarco Caselli, by Elena Fiori
Gianmarco Caselli, by Elena Fiori

Per una esaustiva conoscenza della sua formazione e delle sue svariate collaborazioni e attività rimandiamo ai siti dove è possibile ottenere informazioni anche sui suoi concerti, performances e molto altro.

http://www.gianmarcocaselli.it/

http://www.associazionevaga.it

Da qui è possibile ascoltare Gianmarco Caselli, elettronica e oggetti vari 
Irene Russolillo, danza, in “Genetica I – Omaggio a Cage” di G. Caselli

https://www.youtube.com/watch?v=QGs3Zv0gbKM

Gianmarco Caselli, "Pupille", by Marco Puccinelli
Gianmarco Caselli, “Pupille”, by Marco Puccinelli

Il punto di vista di Gianmarco attraversa due mondi: quello dell’arte, come critico, fruitore consapevole e compositore e quello dell’educazione, come insegnante di scuola.

Per questo, è per noi particolarmente prezioso avere la fortunata opportunità di poter conversare con lui, soprattutto in questo periodo unico della sua vita, visto che è diventato papà da pochissimi giorni.

CHIARA: questo blog è dedicato all’infanzia che incontra l’arte. Alle storie d’amore tra bambini e arte, bambini che seguendo un certo cammino, sempre diverso, sempre inedito, una volta grandi, possono definirsi artisti. Gianmarco, vuoi raccontarci la tua storia? Che bambino sei stato e quando hai incontrato la tua “Beatrice?

GIANMARCO: nella mia famiglia non ci sono stati musicisti, ma cultura, soprattutto letteraria, sì. Il mio primo contatto con la musica quando ero piccolo è stato come quello di tanti altri bambini con una tastierina Bontempi, poi mia madre ascoltava De André. Ho cominciato ad appassionarmi agli ascolti della musica classica quando avevo circa nove anni grazie anche alla professoressa di musica che avevo alle scuole medie. Da piccolo, però, non c’erano occasioni di ascolto e avvicinamento alla musica per bambini, sotto questo punto di vista c’è più attenzione ora. Successivamente, ai tempi del liceo mi sono avvicinato ancora di più a De André, al rock e soprattutto ai Pink Floyd e al punk. Il mio percorso musicale non è stato perciò assolutamente un percorso né regolare né spettacolare.

CHIARA: c’è chi dice che un artista, nel profondo di se stesso, si esibisca, ogni volta, per una persona in particolare. Anche per te è così?

GIANMARCO: no, per un lungo periodo della mia attività la persona a cui mi rivolgevo ero me stesso in contrasto, quasi in opposizione alla moltitudine. Solo quando mi sono reso più libero dallo sforzo di affermarmi ho cominciato a rivolgermi a un’entità indefinita. Successivamente ho scritto e scrivo brani pensati per esecutori specifici o dedicati ad altre persone ma non sono mai stato autoreferenziale: intendo dire che ho sempre cercato di scrivere musica che fosse in grado di comunicare. Non mi piacciono quegli artisti estremamente concettuali che parlano solo a se stessi o a un’élite specifica di ascoltatori.

Gianmarco Caselli, Premiazione al Rotary Club
Gianmarco Caselli, Premiazione al Rotary Club Lucca

CHIARA: ogni artista potrebbe, anzi dovrebbe, fare ciò che più lo rappresenta: il grande pittore macchiaiolo Giovanni Fattori insegnò ai posteri che “arte è libertà da ogni formula nova e antica”. Oggi è più difficile?

GIANMARCO: di certo è molto difficile esserlo oggi in Italia. Noi veniamo da un periodo, quello che va dagli anni ’60 agli anni ’80, in cui molti artisti potevano essere ciò che volevano, e questo, oggi, ci fa sentire molto di più il peso di una società in cui molte realtà dedicate all’arte contemporanea sono costrette a chiudere o a vivere di volontariato mentre lo stato dovrebbe incentivarle e sostenerle. C’è stato un imbarbarimento culturale, a mio avviso pianificato, che ci ha fatto tornare indietro di almeno 60 anni. È come se certe sperimentazioni non fossero mai state fatte, e molti artisti sono costretti, per tirare a campare, a non poter esprimere se stessi. Penso con amarezza a quanti musicisti si trovano a eseguire in concerto le solite musiche di compositori certamente grandiosi e famosissimi, ma pur sempre del passato, senza possibilità di portare in tournée un programma di musica contemporanea perché verrebbe snobbato. Quando dico che siamo tornati indietro di almeno 60 anni, penso proprio a questo: una volta che ho scritto un pezzo in stile John Cage in occasione del suo anniversario, ho sentito i commenti di alcune persone di questo tipo: “Oh, anche io saprei fare musica così.”

Perché le persone hanno dimenticato Cage, Stockhausen, anzi, molti non sanno proprio chi siano. Del resto, tanti non conoscono neppure la storia del nostro paese. In compenso conoscono i nomi dei partecipanti ai talent show. La libertà, e spesso anche l’intelligenza e la cultura, come la storia ci ha insegnato, continuano spesso a essere purtroppo sinonimo di isolamento e incomprensione. Io, comunque, non la vivo così e sono contento che tante persone apprezzino la mia musica.

Gianmarco Caselli, Berlino, Tacheles
Gianmarco Caselli, Berlino, Tacheles

CHIARA: leggendo critiche e recensioni riguardanti le tue composizioni e i tuoi spettacoli, per definirti, ricorre spesso l’aggettivo, “geniale”. Tu sei anche un professore di scuola secondaria superiore: credi che ci siano stili educativi che più di altri possono far emergere il genio creativo degli studenti?

GIANMARCO: ovviamente mi fa piacere l’aggettivo “geniale” e spero di meritarmelo. Per quel che riguarda l’insegnamento, le nuove tecnologie hanno introdotto un nuovo linguaggio con relative tecniche di comunicazione e apprendimento di cui non si può non tenere conto. Ma queste non bastano. Penso sia essenziale far esprimere i ragazzi, fargli interpretare e selezionare i tanti input da cui sono bombardati, e farli lavorare possibilmente in gruppo affinché ricreino, nella relativamente piccola realtà scolastica, un tessuto sociale che è stato distrutto nel nome dell’individualismo.

CHIARA: anche in ambito artistico si corre il rischio dell’autoreferenzialità e come se non bastasse, in Italia, la percentuale di chi va a vedere spettacoli teatrali o ad ascoltare concerti è bassissima. Pensi che la scuola possa fare qualcosa per questo?

GIANMARCO: certo! Fosse per me, essendo in un paese che è la patria dell’opera lirica e una delle maggiori mete artistiche del mondo, la storia della musica e la storia dell’arte dovrebbero essere obbligatorie e presenti con più ore in tutte le scuole. C’è anche da dire che la cultura è sempre in mano ai soliti noti da anni e anni, non vengono coinvolti i giovani neppure nei quadri dirigenziali delle associazioni che organizzano eventi: con quale faccia poi queste associazioni pretendono che, quando allestiscono spettacoli di qualsiasi tipo, i giovani ci vadano? Il discorso vale sia in ambito locale che nazionale, ovviamente.
Per l’autoreferenzialità vale quel che ho detto alla tua seconda domanda, e gli artisti autoreferenziali solitamente finiscono dimenticati come è giusto che sia per coloro che parlano solo a se stessi.

Gianmarco Caselli, “Pupille”, by Andrea Del Testa
Gianmarco Caselli, “Pupille”, by Andrea Del Testa

CHIARA: l’insegnamento della musica, in Italia, ma non solo, è davvero limitato e insufficiente. Il sistema scolastico, per la sua struttura, consente che uno psicologo, per esempio, o un medico, un educatore, un insegnante, etc… possano laurearsi a pieni voti ignorando completamente gran parte del nostro patrimonio culturale musicale. Ciò influisce sulla società e sull’idea di essere umano che circola nella coscienza comune?

GIANMARCO: certo. E il risultato è un pubblico disposto ad ingoiare tutto ciò che passa il convento purché non sia sperimentale e si fermi storicamente a Wagner.

Gianmarco Caselli, by Elena Fiori
Gianmarco Caselli, by Elena Fiori

CHIARA: per quanto tu scriva musiche per pianoforte atmosferiche, il tratto più caratterizzante della tua musica è l’elettronica sperimentale e l’utilizzo di oggetti, spesso metallici, in scena. Quanto è rimasto nella tua arte di quando eri bambino?

GIANMARCO: ho sempre cercato di utilizzare l’elettronica in un modo un po’ diverso dal solito. Certamente a volte posso scrivere una musica che sembri più tradizionale, ci può stare. Io, personalmente, e mi riallaccio alla tua terza domanda, non seguo assolutamente alcuna regola. Cerco ogni volta di fare quello che voglio. In questo mi sento molto vicino a quello che fanno i bambini: è come se ogni volta volessi scoprire un mondo nuovo anche nell’utilizzo degli strumenti. Con l’elettronica posso creare tantissimi suoni che in natura non esistono, poi da almeno una decina di anni sono abituato a portarmi un registratore in tasca, a raccogliere i suoni del mondo e poi rielaborarli per costruirci nuove sonorità , ma anche a prendere oggetti come pentole, forchette e quant’altro, e suonarli dal vivo.

041-7571 13.12.14 Spam G. CaselliGianmarco Caselli, “Pupille”, by Marco Puccinelli

Intervista: IGNAZIO FRESU “L’essere è divenire”

Intervista a Ignazio Fresu: “L’essere è divenire”

 

Il sabato del villaggio Ignazio Fresu- Il Sabato del Villaggio

“Dunque da tutto ciò si deduce […] che nessuna cosa di per sé è una, ma sempre nasce rispetto ad un’altra; e che il verbo «essere» va soppresso dappertutto, benché noi molte volte e anche poco fa fummo costretti a servircene dall’abitudine e dalla mancanza di scienza. Invece, come dice il discorso dei sapienti, è necessario non concedere nulla, né di uno né di me, né questo né quello né qualsiasi altro nome che stia fermo, ma è necessario dire secondo natura che le cose nascono, vengono fatte, muoiono, si alterano; perché quando uno con il discorso mette qualcosa ferma, facendo questo può essere facilmente rimproverato”. (Platone, Teeteto, 155 a3 – 157 b8).

Questo passo ci introduce al tema del divenire e della conoscenza delle cose che divengono e che, perciò, trasformandosi, ci invitano a rivedere la nostra conoscenza su di esse che non può essere ferma, stabile, data, costituita una volta per tutte, ma necessita di divenire insieme alle cose stesse, di trasformarsi con loro.

La contraddizione  è solo apparente. Siamo immersi in uno stabile divenire e ne siamo parte, “in fieri” noi stessi. E’ l’unità del molteplice, affrontata da tutte le tradizioni filosofiche del mondo e tema caro alle riflessioni spirituali.

La nostra conoscenza delle cose è sottoposta all’inganno dei sensi, la realtà spesso non è quella che appare, lo si scopre avvicinandoci, sperimentando, provando. Di tutto ciò si occupa Ignazio Fresu nel suo donarci un invito alla scoperta, alla riflessione avventurosa sulla conoscenza delle cose.

Cenere IIgnazio Fresu-Cenere

Fresu, attraverso le sue opere, apre lo spettatore ad una realtà che sì, può anche essere ciò che appare, ma è anche un molto altro tutto da scoprire lungo un percorso che è possibile compiere semplicemente grazie alla vera osservazione, fatta non solo di sguardo dell’occhio ma anche di quello sguardo che il pensiero sa lanciare. La struttura delle opere di Fresu non vuole ingannare, non vuole essere “il genio maligno” di Cartesio ma un invito a sfogliare i vari strati dell’essere senza dualismo, senza opposizione per integrare e accogliere apparenza e sostanza. Non è la realtà ad ingannarci bensì il nostro sguardo superficiale.

Di Fresu,  Sara Paradisi su Wikipedia scrive:

“Le sue opere sono basate sul contrasto tra realtà ed apparenza, sull’inganno generato dallo sguardo frettoloso. Ogni cosa è esattamente l’opposto di ciò che appare e nessuno sembra accorgersene. Il metallo non è metallo, ma spesso cartone o polistirolo travestito da metallo. L’usura e l’ossidazione dei materiali sono soltanto un abile gioco di interventi manuali. La leggerezza è travestita da pesantezza. Gli equilibri precari sono calibrate composizioni statiche. L’acqua viene riprodotta attraverso materiali tecnologici come il plexiglas e il vetro. Giocare con i materiali e con il concetto di apparenza è uno dei modi di Ignazio Fresu per collegarsi alle tematiche del divenire, della trasformazione dell’uomo e delle cose operata dallo scorrere del tempo così come al concetto della bellezza precaria ed effimera”.

Il sabato del villaggio IIIgnazio Fresu-Il Sabato del Villaggio

Ignazio Fresu invita ad una osservazione fondata sul pensiero, sull’esperienza carnale dell’opera grazie all’interazione dello spettatore, e soprattutto sulla consapevolezza del divenire della vita.

Abbiamo chiesto a Fresu di aiutarci a riflettere sul mondo dell’infanzia nel suo rapporto con l’arte. Il mondo in cui viviamo può ingannare facendo apparire le cose solo per ciò che non sono.  Depista costantemente l’attenzione verso un altrove inafferrabile. Chimere che si spostano  nel momento in cui tentiamo di raggiungerle e in questo rincorrerle si riduce sempre di più la nostra capacità di cogliere il tempo presente con tutta la sua pienezza.

I bambini, gli adolescenti, tutti necessitiamo di rafforzare il nostro contatto con l’esserci e con la sostanza della realtà.

Cenere II Ignazio Fresu-Cenere

Prima di leggere il punto di vista che, gentilmente, l’artista ha voluto donarci, è utile rileggere questo scritto di Seneca, tratto da “Il tempo”.

“I giorni migliori fuggono, non c’è dubbio,
se ci si lascia travolgere da faccende
di ben poca importanza.
Così la vecchiaia sorprende gli uomini quando,
nello spirito, non sono ancora cresciuti,
e li coglie impreparati e inermi;
non l’avevano previsto infatti;
e ci si trovano dentro da un momento all’altro,
senza aspettarselo: non si rendevano conto
che la vecchiaia si avvicina un po’ tutti i giorni.
Succede anche in viaggio: chi si lascia distrarre
da una piacevole conversazione o dalla lettura di
un libro o da un pensiero inesistente
si accorge di essere già arrivato prima ancora di
rendersi conto che si sta avvicinando;
così pure questo viaggio della vita,
ininterrotto e veloce, che noi facciamo sempre
con lo stesso passo da svegli e nel sonno,
a chi è sempre affaccendato
si manifesta solo al suo termine”.

Cenere IIIIgnazio Fresu-Cenere

Per essere aggiornati sulle prossime installazioni e per approfondire la conoscenza di questo straordinario artista, le cui opere affrontano temi filosofici e spirituali di ampio respiro, rimandiamo al suo sito personale:

http://ignaziofresu.blogspot.it

http://ignaziofresu.blogspot.it/p/opere-works.html

https://www.facebook.com/profile.php?id=1111683482&fref=ts

https://www.facebook.com/pages/Ignazio-Fresu-visual-artist/51939967031

Cenere IVIgnazio Fresu-Cenere

 

Chiara: ho avuto la fortuna di conoscerti attraverso alcune delle tue installazioni. Come si è delineata in te la scelta di esprimerti in questo modo, anziché attraverso altre forme artistiche?

Ignazio: l’installazione come forma artistica si è prepotentemente imposta nel mio percorso artistico all’età di 18 anni durante il primo anno dell’Accademia. Maturai rapidamente la consapevolezza che le forme espressive basate sull’immagine bidimensionale come la pittura e la fotografia, così come anche quella tridimensionale della scultura, fossero insufficienti a  rendere l’idea della forma espressiva che intendevo realizzare.  Neppure la performance ed il video che proprio in quegli anni stava prendendo le mosse attraverso il videotape, seppure da me inizialmente utilizzate, non mi soddisfacevano in quanto implicano un tempo prestabilito e determinato, dal quale le altre forme d’arte visiva sono svincolate. Una sostanziale libertà di fruizione che solo l’arte visiva e l’architettura consentono. E’ proprio questa vicinanza tra arte visiva e architettura che mi hanno portato a scegliere l’installazione come forma d’arte preminente per approdare alla quarta dimensione dove lo spazio e il tempo sono sensorialmente tangibili e il fruitore interagisce con l’opera fino a diventarne parte.

Il sabato del villaggio III

Ignazio Fresu-Il Sabato del Villaggio

il sabato del villaggio IV

Ignazio Fresu-Il Sabato del Villaggio

Chiara: come vivevi la tua dimensione artistica quando eri  bambino e come la conciliavi con gli obblighi scolastici?

Ignazio: sin dalla primissima infanzia il mio gioco preferito consisteva nel ritagliare, incollare, disegnare e colorare. Questo era per me naturale anche se vedevo che i miei familiari si stupivano di questo mio comportamento che poi in età scolare mi distraeva moltissimo dagli impegni scolastici causando preoccupazione ai miei genitori. Il disegno che durante la scuola elementare accompagnava sempre tutti i compiti, occupava di gran lunga di più il mio interesse.

oggetti smarriti

Ignazio Fresu-Oggetti Smarriti

Chiara: hai mai fatto o pensato di fare un’opera dedicata ai bambini?

In tutti i miei  lavori ricerco una dimensione di fruizione più ampia possibile, sia da un punto di vista formale che dei contenuti. La prerogativa che considero più importate è quella di essere in grado di destare interesse sia nei bambini che negli adulti, sia nelle persone al di fuori dalle tematiche dell’arte, che in quelle più addentro. In questo senso tutte le mie opere sono dedicate anche ai bambini, alcune però destano in loro maggiore curiosità come ad esempio “Il sabato del villaggio” realizzata con i giocattoli, “Memento” con i banchi di scuola, “Cenere” con una moltitudine di oggetti e fotografie o “Nel pensier mi fingo” realizzata con scatole piene d’acqua.

Cenere VIgnazio Fresu-Cenere

Ultima CenaIgnazio Fresu-Ultima Cena

Chiara: quali sono stati gli artisti che hanno ispirato di più il tuo sviluppo personale?

Ignazio: sono stati gli artisti del movimento dell’Arte Povera. Mi sono formato attraverso le loro opere oltre che sulla Minimal Art e la Land Art. Ma mi sento profondamente legato a  tutta l’arte da quella preistorica, sino all’arte più contemporanea, quella di questi giorni. C’è un misterioso e invisibile filo conduttore che tiene insieme tutto.

Cenere VIIgnazio Fresu-Cenere

Chiara: come vedi il rapporto arte ed educazione pensando ai bambini di oggi?

Ignazio: grazie alle moderne didattiche, alle applicazioni pedagogiche ed in generale alla considerazione che si ha dei bambini oggi, questi godono di una libertà espressiva e formale che fino a qualche decennio fa era assolutamente inconcepibile. La messa al bando degli stereotipi: la casetta con il tetto rosso, l’albero con la palla verde, il sole con i raggi, eccetera  e le costrizioni formali, consentono un rapporto più diretto e immediato con l’arte che diventa già dai primi anni di vita un importante elemento di stimolo e di crescita sia intellettuale che spirituale.

 

quel che resta
Ignazio Fresu-Quel che resta